Doppio Viandante

A. L.

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    Un esordio fumettistico.
    Il prologo di quella giornata sembrava portarsi appresso nubi uggiose e piangenti sin dal risveglio nauseato di Jo Hicox. C’era da dire che difficilmente a Jo veniva concessa una giornata all’insegna del buonumore ma spesso si trattava di motivazioni non propriamente concrete. O meglio, le sue ore si facevano pregne di riflessioni inconcludenti e asfissianti, la filosofia disfattista gli fiatava sul collo con alito rancido e la lunaticità imbottigliata nel suo serioso involucro gli faceva sperimentare una montagna russa esistenziale e senza freni. Ragioni impalpabili infestavano la sua routine nella maggior parte dei casi ma, quel dì, la lista si era rimpinguata di punti concreti. Si era svegliato che gli veniva da vomitare perché vittima costante di un sonno lieve, frammentario. Di per sé insonne, era stato maledetto dall’imminente cambio di clima il quale, come al solito, aveva scaricato il proprio peso sulle gambe martoriate dell’uomo. Non potendo e non volendo (idiota) gravare su nessuno, aveva patito in una sorta di silenzio ringhiante nell’attesa che il dolore si attenuasse. Lì per lì, nemmeno i medicinali sembravano voler fare effetto ma, proprio quando era riuscito a svenire per sfinimento, era suonata la sveglia. Fuori tuonava come se qualcuno stesse caricando e scaricando massi dallo strato fitto e plumbeo di nubi. I lampi si ramificavano vividi sullo sfondo grigio ma parevano sfumarne appena lo spessore minaccioso. Lo scroscio temporalesco si era rigettato su Hogsmeade proprio quando il mago aveva avuto l’insana idea di trascinarsi oltre l’uscio del Numero Nove. Tiratosi su il cappuccio dell’impermeabile blu, si era diretto da Mondomago dove aveva scoperto con somma gioia che il suo conto era stato bloccato. Digrignando i denti da squalo, senza cambiare espressione di una virgola, aveva afferrato un fermacarte lanciandolo con violenza contro una parete alla sua sinistra, permettendo alla punta di conficcarsi in una bacheca di sughero senza neanche premeditarlo.

    Dunque, con la voglia di vivere dimenticata per sempre in solaio, il mago avanzava nella pioggià fattasi muraglia, consapevole di non potersi smaterializzare a piacimento. Gli arti inferiori dolevano al punto di precludergli le facilitazioni che solitamente offriva la magia. Stringeva il pugno destro intorno al manico del bastone, sfogandovi la frustrazione e premendone l’altra estremità nel terreno fangoso. Ai lati gli sfrecciavano persone brulicanti e disattente mentre lui, gli anfibi ormai rivestiti del ricordo di un bianco ottico, cercava di non scivolare miseramente e concludere tutto già dal mattino, con una visita al San Mungo. Comunque, a proposito di bianco, ecco che una buona quantità punse i suoi occhi vitrei malgrado la cupezza atmosferica. Era giunto alla Gringott e l’edificio squarciava esangue il cielo, in attesa di inghiottire l’ennesimo individuo. Prima di farlo, il fulvo tentò invano di darsi una sistemata ma, troppo sofferente e distratto, rimase con addosso il cappuccio. Gocciolò attraverso una processione di metalli tradotti in porte, badando bene di non incrociare lo sguardo di nessuno perché per nulla intenzionato a sfoggiare il suo lato gentile. Zoppicava vistosamente e creava una specie di paradosso nei flussi che rimpinzavano la banca. Giunse quindi a uno sportello e, sollevando il capo fradicio, non si aspettò certo di incrociare un cipiglio amichevole. I Goblin, d’altronde, non erano famosi per le loro attitudini sociali e Jo non si sentiva di dar torto alla loro conclamata misantropia. Il fatto che parve destabilizzarlo, però, risiedeva nel sospetto mostratogli da quella creatura arcigna. Diffidente per natura, sembrava fin troppo sul chi vive nell’accogliere l’artigiano al proprio cospetto. Gli occhietti già porcini e inquietanti, si erano ridotti a fessure così sottili e taglienti da far dubitare che fossero aperti. Venivano sormontati da sopracciglia arcuate e acuminate nell’aspro giudizio che non era ancora stato espresso verbalmente.

    - Buon… giorno? - salutò Herr Hicox con tono interrogativo, fra la perplessità nell’essere osservato con simile invadenza e la retorica sul fatto che fosse un buon giorno nel senso più sarcastico possibile dell’aggettivo. In risposta, ottenne un mugolio vagamente simile a un “dica”. Non sembrava previsto alcun saluto di rimando. - Ho ricevuto comunicazione in merito al blocco del mio conto e… - ma non poté concludere la frase che un sogghigno sprezzante e aguzzo squartò la faccia del Goblin come fosse un frutto avvizzito e tagliato da un’accetta. -… gradirei capirne il motivo. - dunque l’essere s’impettì, incrociando le braccia al torace rigonfio. Nell’insieme, una prugna secca e masticata che faceva sfoggio della propria posizione per deridere il cliente. - Ah, lei gradirebbe, quindi. E per quale ragione io dovrei assecondare la sua richiesta? - a quel punto Hicox strizzò le palpebre un paio di volte e i bulbi oculari arrossati, rotearono per lo spaesamento. Si portò la mancina alla tempia corrispondente e chiese: - Lei sta scherzando, vero? - dunque, i denti del goblin luccicarono ancor più minacciosi, mentre si faceva avanti e la catenella dei suoi occhialetti tintinnava lungo le rughe della sua faccia. - No, forse è lei che deve smettere di scherzare perché è già tanto che io non abbia chiamato gli Auror. O la Squadra Speciale Magica! O il Ministro in persona! - alla sua vocetta nasale si aggiunse un gridolino querulo. Ora lo affiancava un collega innanzi allo sgomento totale dell’Indicibile, costretto ad assistere ai loro bisbigli per nulla discreti. Quello apparentemente più giovane, indicò un punto non definito del quale il mezzo-crucco seguì la traiettoria. A quel punto, anche se debolmente, rise. Non era una risata piena, compiaciuta o conseguente a qualcosa di lieto. Era una risata isterica che gli fece tremare le labbra e assumere un’espressione preoccupante. La banca era tappezzata di taglie su un figuro del quale non si poteva scorgere il volto ma che indossava una giacca impermeabile blu, degli anfibi bianchi e che zoppicava brandendo un bastone.

    Da rigide, le spalle del Bastardo di Sligo s’afflosciarono così come la mandibola si allentò a causa dello stupore. Non sapeva in alcuna maniera come ribattere, né possedeva la forza per sottolineare che no, non era lui quello immortalato nei tanti poster sparsi per la Gringott. D’altronde, a una prima vista, poteva effettivamente sembrare il rapinatore. Avrebbe dovuto esaminarne l’immagine e confrontare le peculiarità ma lì per lì rimase semplicemente impietrito, vacuo, incredulo. Qualcuno doveva averlo maledetto.
     
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    Alla luce artificiale dei lampadari di cristallo, davanti gli occhi resinosi di Agrafena, sciabolavano aloni bianchi e passeggeri. La vista le si faceva appannata ad intermittenza, ma durava, appunto, giusto il tempo dell’adattamento al repentino movimento di sguardi.
    Avrebbe voluto avere uno specchio a portata di mano per osservare la persistente resistenza della cornea fare a botte con quella piacevole tortura autoindotta, ma la sua immagine non trovava spessore tra le venature opache del marmo, costringendola così ad appellarsi ad una pigra immaginazione.

    ( La pupilla si dilata e torna a fissare lo stesso punto.
    Sprazzi di rosso e di nero contro la retina.
    La pupilla si restringe.
    E così, da capo.
    )

    Un sibilo secco frustò l’aria e si disperse aldilà della vetrata colorata poco distante e che Ariádne aveva avuto l’ardire di socchiudere in un momento di distrazione generale. Dall’alto dei loro banchetti schierati, in effetti, era difficile che i Goblin trovassero il tempo di prestare attenzione a ciò che li circondava: colonnine di galeoni tintinnavano tra le loro ditacce acuminate alla stregua di un canto di sirena.
    Uno stormo di corvi macchiava di morte il grigio di un’estate ormai giunta alle sue ultime battute.
    La pioggia pareva non trovare resistenza nell’asfalto: profumava inaspettatamente di bosco e di gas di scarico; l’odore – buono – le scivolava in gola e lì restava a tentarla, insieme al fumo della quarta sigaretta della giornata.
    Provava un certo godimento nell’idea di imbrattare con i suoi respiri cancerogeni l’aria di quella prigione dorata, imbastita ed eretta sul concetto di inespugnabile perfezione. Malgrado le ammonizioni – verbali e sottoforma di occhiatacce lapidarie – aveva trasformato quel vizio saltuario in una vera e propria abitudine di anarchica sovversione. Poco oltre il corridoio dedicato agli uffici, in una delle due navate laterali, nettamente più strette rispetto al lungo ed imponete corridoio d’ingresso, s’era così ritagliata il suo angolino di pace, nascosta tra l’ombra della lesena e l’ultima, spessa, colonna.
    Dal basso di quella postazione privilegiata, si sentiva onnipotente; come l’addetto ai lavori di un immenso teatro, vegliava il silenzio ed ascoltava le rade parole dei visitatori che tentavano, invano, di spezzarlo. Era stato strano, per lei, rientrare dal mese di congedo. Strano perché era convinta che avrebbe ritrovato la propria oasi di confortevole familiarità proprio in quel silenzio che ora le perforava le orecchie con irrequieta alienazione. Aveva sempre odiato il lavoro di ufficio, quel lento navigare – o affogare - tra scartoffie e relazioni battute a macchina, eppure era perfettamente consapevole fosse altrettanto fondamentale; la sua indole da scassapalle perfezionista non le consentiva di abbandonarsi alla negligenza, tanto meno si sentiva propensa a delegare ad altri mansioni che sarebbe perfettamente stata in grado di eseguire da sola, e meglio.
    Così, rassegnata all’idea di abbandonare la sua zattera d’insofferenza, aspirò l’ultimo grumo di tabacco con lenta e sofferta arrendevolezza.

    All’inizio, dunque, non vi prestò particolare attenzione.
    Si concesse una veloce occhiata di perlustrazione, registrando di sfuggita un’informe macchia blu grondante pioggia, come un nembo solitario lasciato indietro dai suoi fratelli. Fece per andarsene quando un piccato scambio di battute tra il visitatore e Sorriso Smagliante Rufur non ricatturò la sua attenzione, costringendola a sporgersi leggermente oltre la colonna per vedere meglio. L’elettricità atmosferica dell’uomo-nuvola pareva sul punto di scaricarsi al suolo con imprecise traiettorie, alimentate dalla resistenza concentrata nei corpi raggrinziti dei due Folletti. L’accesa conversazione tra le due parti venne registrata solo in parte, dal cervello millefiori della donna; i suoi occhi si agganciarono ai lineamenti spigolosi del mago, momentaneamente sfuggiti alla presa dell’ombra del cappuccio, e lì rimasero incastrati, avari di strapparlo ad una rimembranza che un lampo improvviso pareva aver riportato a galla, illuminandola a giorno.
    Un tuono, poco distante, gli fece eco, facendo tremare le vetrate.

    Villaggio di Knospe, 9 ottobre 2035.

    Se tossisco, sento ancora la polvere soffocarmi i polmoni.
    A volte vado avanti per minuti infiniti e mi sembra di sputare un deserto intero. Ma non è niente, in confronto, lo so bene. Va meglio, comunque: domani ci hanno comunicato che faremo ritorno a Londra. Senza Mortimer.
    Oggi, invece, ci hanno chiesto chi voleva andare per un ultimo sopraluogo, per raccattare le ultime cose. “Io”, ho risposto. Sono andata.
    Per il terzo giorno consecutivo, ciò che più mi ha colpito, è stato il silenzio: una dimensione che lì sembra non esistere più, se non per una sottrazione d’istanti. Continua a rubare l’anima a chi vi si appressa, oltre a chi vi è già sprofondato.

    “Sei annegato in quelle nebbie tanto tempo fa da non averne più paura; le saluti, quasi, come vecchie compagne di cammino e di destino”.


    Percepì un leggero formicolio all’unghia. Costretta così ad abbassare lo sguardo, si accorse di come la cartina della sigaretta ancora accesa – o ciò che vi era rimasto - continuasse a cercare materia da bruciare, a discapito del filtro o delle sue dita. Lasciatasi sfuggire un sibilo di fastidio, la lasciò ricadere a terra e ci si accanì con la punta degli stivaletti color sabbia, prima di scacciarla con la stessa a raggiungere il cimitero delle cicche ai piedi del basamento in marmo, solo in parte nascosto e mantenuto vivo come monito del suo passaggio.
    La curiosità s’era impossessata delle sue viscere e minacciava di stringere la presa ad ogni respiro; ma non era solo quello. Sospinta da un impulso elettrico, si palesò aldilà dell’ombra con calibrata cautela, incrociando e ingabbiando le braccia al petto.
    - Birbag. Direttore Rufur. Lo sapete, vero che se vi affacciaste su Hight Street sareste costretti a mettere a ferro e fuoco l’intera Diagon Alley, sì? – la sua voce rimbalzò tra le pareti dell’ingresso semi vuoto, ritornandole indietro come un boomerang. Si sentiva addosso lo sguardo acquoso dei due Goblin, ma la sua attenzione era tutta rivolta altrove. – Landysh. I tuoi servigi qui non sono richiesti. Non dovresti…-
    - …lavorare, per l’appunto. E’ quello che sto facendo. Weasley mi ha mandata a prendere il signore che state amabilmente importunando per un appuntamento riguardante voi-sapete-cosa. Non vorrete mandare tutto a monte, vorrei sperare. Perché voi non cercare di risolvere il suo problemino, nel mentre? – solo a quel punto si concesse di ricambiare l’occhiata con un lento movimento della testa. I capelli le ricaddero su una spalla come una colata di miele, mentre un sorriso stucchevole si fece spazio tra le forme innaturalmente dure del viso, modellato su geometrie diametralmente opposte.
    La linea sottile di quella che avrebbe dovuto essere la bocca, scoprì la dentatura visibilmente marcia del vecchio Rufur: non sembrava convinto. Ariádne era perfettamente consapevole che la diffidenza dei Folletti era uno strascico difficile da scrollarsi di dosso, ma sapeva anche quanto la scala gerarchica delle priorità ponesse gli affari e gli interessi della Banca, al primo posto. Le parole di un misero Spezzaincantesimi, in fondo, venivano prese in considerazione più di quanto i Folletti stessi sarebbero stati disposti ad ammettere. Così, dopo un lungo ponderare, il Direttore fece loro cenno di andare, con un movimento secco delle dita aguzze.
    Afragena non se lo fece ripetere due volte. Levò i tacchi e prese a marciare a passo sostenuto nella stessa direzione dalla quale era venuta, sinceramente speranzosa che lo sconosciuto prendesse le sue parole come un chiaro invito a seguirla. L’ombra tornò ad inghiottirla, e così uno sgradevole senso di irrequietezza. Le tempie presero a pulsarle nello sforzo di far affiorare immagini che credeva sepolte sotto densi strati di macerie e brutti sogni. Ricordava le crepe tra la roccia collassata su se stessa e si disse che dovevano probabilmente essere passati da lì: i fantasmi e i ricordi di un autunno macchiato di sangue.
    Ariádne lo aspettò, ma ora che ci si ritrovava faccia a faccia, non riusciva più ad aggrapparsi all’impulso di incrociarne lo sguardo.
    - Tu…- iniziò, sottile come una pallottola silenziata - …dovresti essere morto. Perché non sei morto? -

    Edited by Ariádne Landysh - 26/8/2021, 23:54
     
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    -Scusi lei! Hey, dico a lei! Per caso è anche sotto effetto di sostanze stupefacenti?! – cantilenò arcigno il Goblin arcigno. Svegliò Jo dal torpore, il quale strizzò le palpebre di malavoglia. Impalato come la vittima di un’imboscata vichinga, dovette stropicciarsi il volto smunto con vigore prima di volgersi nuovamente in direzione del banco. Era fortemente infastidito, esausto e dolorante ma quella mistura esplosiva sembrava non bastare a renderlo reattivo. Si faceva insultare perché a malapena connesso con la realtà e tale “atteggiamento” si sarebbe rivelato potenzialmente pericoloso. Un ottimo modo di assecondare i sospetti delle creature lì presenti, data l’ottusa convinzione secondo cui ”chi tace acconsente”. Alla fin fine, vedendo Hicox tanto spaesato, si stavano quasi prendendo gioco di lui. Forse non erano così convinti che corrispondesse a quella sorta di identikit o, magari, sarebbero stati più spaventati. La distrazione di Birke surclassava ogni altra facoltà psico-emotiva e lo faceva con una maestria tale da trasformarlo nella bozza dell’indifferenza. Ascoltava la coppia di folletti blaterare, gracchiare, li osservava avvicinarsi e tirare di scherma con i loro nasi adunchi e c’era della fascinazione da studioso nei suoi occhi pressoché vacui. Ecco, quello pareva infastidirli ma era difficile decretare cosa instillasse disappunto in quelle prugne marce visto che ne provavano in quantitativo esagerato nei confronti di… tutto. Non da biasimare, in tal senso.

    Inebetito, di tanto in tanto assumeva vaghe sfumature di verde dovute alle pulsazioni che gli si aggrappavano ai femori. Rifletteva disarmato su come uscire da quel casino e, nei bassifondi del suo spirito a brandelli, cominciava a sobbollire altra rabbia. Una rabbia diversa che fu in parte tramortita dall’ingresso in scena di un nuovo elemento. La prima cosa che colse da quest’ultimo fu la timbrica sicura ma resinosa. Forse alterato dalla catena di fitte agli arti, rimase stranito dall’apparente capacità di toccare quella voce femminile e percepirla appiccicosa come quando, dopo una corsa, ti poggi a un tronco e ti accorgi troppo tardi di aver schiacciato le sue gemme. Era una voce femminile, uno spaventoso bilancio in grado di amministrare una nenia metallica. Conciliante ma pungente, odorava del vento autunnale e non solo: a guardare la proprietaria di quella lingua lesta, ne portava addosso le nuance di mezza stagione. Negli abiti come nella pelle. Era certo di non averla mai vista in vita sua, eppure fu come rincontrare qualcuno. Scontrarvisi, trovando scomodo l’attrito ma non la persona coinvolta. Una dei martelli che finemente si dedicava al femore sinistro, compì un allegorico salto e gli si piantò nella tempia. Parve sbloccare qualcosa nella nebbia. Niente.

    La giovane sbrogliava con abilità notevole l’inconveniente mentre Eisen spiava da vicino una di quelle locandine e giocava alla Settimana Enigmistica. I particolari che lo differenziavano dal ladro erano piccoli ma tanti: la lunghezza della giacca, la foggia, l’altezza degli anfibi, la robustezza del corpo ammantato e il ciuffo biondo che si poteva intravedere nel momento esatto in cui il soggetto si guardava le spalle con circospezione. Appurare ulteriormente la sua innocenza non lo sconvolse più di tanto ma, a un tratto, capì di doversi attenere alla farsa quando la dipendente tirò in ballo una faccenda di rilievo nella quale Jo pareva essere coinvolto. A quel punto, strinse le labbra già sottili e rivolse lo sguardo di perla Birgbag e Rufur. Le sopracciglia si sollevarono in un arco eloquente che stava a significare: “lo so, lo so. Non faccio io le regole, qui”. Doveva risultare credibile nonché consapevole di qualcosa che, per lui, rappresentava il buio totale. Comunque, annuì perché la coppia di Goblin sapeva cosa. Tutti sapevano cosa. Tranne Jo Hicox.

    Divenuto vittima di una specie di blackout, eccolo rinvenire in una marcia che l’avrebbe condotto chissà dove. Era come se quella ragazza lo avesse tramortito e poi trascinato via con buona lena. Dal canto suo, l’artigiano procedeva secondo il ritmo imposto dalla strega ma non senza imprecare interiormente. Benché si fossero fermati in una pozza d’ombra, la sconosciuta vibrava di irrequietezza e, tali vibrazioni, si estesero presto sino a Mr. Mondomago. Stava cercando un compromesso fra i propri bulbi oculari e l’oscurità quando gli parve d’essere investito dal fiato di un drago impaziente.

    -Tu… dovresti essere morto. Perché non sei morto? -


    A quel punto, con uno sbuffo pressoché incredulo, un sorriso stralunato si ruppe sulla bocca alla stregua di una bottiglia in vetro. Durò poco, fu un’esplosione allucinata ma debole. Quella giovane strega lo conosceva e gli si rivolgeva con una veemenza che alimentò la sua confusione. Lo rese partecipe di una sensazione sotterranea cui non sapeva dare un nome ma che, a quanto pareva, abitava in lui da anni.


    - Okay. - esordì in un sussurro, il rombo lontano di un tuono. - O è uno scherzo o comincio a credere di soffrire di un disturbo della personalità. - in effetti, erano tante le occasioni in cui sarebbe dovuto schiattare. Tantissime, in contrasto con quella falsa quiete che lo laccava da sempre. Una circostanza in particolare, quella che più si era avvicinata al decesso. Giusto? - Tu… io… ci conosciamo? – ormai, riusciva a ritagliare la sagoma di lei dal nero e a farla risaltare. Brillava di uno shining preoccupante.
     
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    Mortimer Bagman era solo un ragazzetto quando il fiore dei suoi sedici anni era appassito sotto un denso strato di macerie e grida strozzate. Fastidioso, invadente, maldestro, certo, ma pur sempre un ragazzino. A nessuno importava di Mortimer Bagman ma, in un modo o nell’altro, a Mortimer Bagman sembrava importare di tutto e tutti, con una dedizione invidiabile ma sconsiderata, stupida. Era contento di farsi calpestare e per cosa? Perché a lui i libri non piacevano, ma voleva imparare. Voleva imprimere sulla lingua il sapore del sapere e poco gli importava venisse sintetizzato in gradazioni distorte, purché lo sfamassero in proporzione alle sue piccole aspirazioni.

    - Non ti posso assumere, lo capisci? Non hai nemmeno finito la scuola. Hai solo sedici anni –
    - Ma signore, io non voglio essere assunto. Non voglio diventare Spezzaincantesimi. Tra qualche mese i miei interessi saranno già rivolti altrove. Però posso fare tutto, dove c’è bisogno. Anche piccole cose. Voglio osservare e assorbire, imparare con le mani –
    - E’ la prima volta che sento una cosa del genere…-
    - Ed è un male? Senta, non voglio nemmeno essere pagato –
    - Non vuoi essere pagato? –
    - Beh, ecco…magari un galeone. O qualche zellino, se è troppo. Dovrò pur mantenere l’indipendenza, in un qualche modo –


    Mortimer Bagman era così diventato il capro espiatorio perfetto, oltre che l’incarnazione di una pigrizia inetta impiantata nelle espressioni putride di vecchi boriosi, rimasti attaccati alla loro posizione privilegiata perché sinonimo di un’alta gradazione di potere piuttosto che per reale volontà di svolgere al meglio il proprio lavoro.
    Se Ariádne pensava a Mortimer, sfogliando l’annuario mentale di tutte le fisionomie registrate e catalogate dalla sua mente analitica, non era sicura di riuscire ad isolarlo e a dargli un contorno così definito. Lo aveva conosciuto per la prima volta proprio in Germania, a Knospe, durante quella che poteva definirsi una delle sue prime spedizioni ufficiali. Lo ricordava come un accumulo di fotogrammi in movimento; mai fermo, sempre pronto a smuovere sabbia e polvere con quei suoi scarponcini logori, sempre pronto a rincorrere un obbiettivo, una banderuola instabile aggrappata all’asta per mezzo di un laccetto sfilacciato.
    A Knospe, poi, c’era pure morto, ma in pochi se lo ricordavano - o facevano finta di averlo dimenticato. La terra doveva esserselo inghiottito, o serpenti invisibili dovevano averlo tramutato in fredda ed umida pietra; era l’unica spiegazione plausibile poiché il suo corpo non fu mai ritrovato. Ariádne, però, lo ricordava. Ricordava la sua corsa forsennata verso la bocca di petrolio nero della cava e poi ricordava il crollo, non per forza in quest’ordine. A distanza di così tanti anni si erano in realtà diradati i momenti in cui si concedeva di riaprire quella parentesi così caliginosa e ogni volta che lo faceva, le immagini infestavano la sua mente in successioni sempre diverse, disordinate e grumose. In quegli istanti di rimembranza, tuttavia, le sembrava ancora di sentire le guance umide; se le sfrega con vigore, con rabbia, ma le sue dita rimanevano aride.
    Schiacciata da stupidità e da strati di lamiera divelta e inutilizzata, l’unico pensiero che era riuscita a maturare nei momenti subito successivi alla catastrofe, era stato uno soltanto: tu hai perso. Per l’ennesima volta. Non importava quanta terra le si fosse incastrata sotto le unghie, nel raffazzonato tentativo di scavare a mani nude e togliere di mezzo pallottole di roccia pesta: hai perso. Anche quando un secondo crollo se la prese con sé, squarciandole l’avambraccio ma lasciandola respirare polvere. E mentre le costole scricchiolavano sotto il rigonfiamento dei polmoni e le mozzavano il respiro, mentre imprecava con la rabbia repressa tra i denti e lo scontento del perdente in cui era costretta a riconoscersi, una voce ruppe il silenzio della disfatta, una voce disgraziatamente familiare. Non avrebbe voluto ascoltarla, né sentirsi come si sentiva davanti a quell’appello sempre più insistente. Non avrebbe voluto accoglierne il richiamo, perché era qualcosa che sapeva di un ruolo più degno, di un riscatto possibile. Dunque, con una determinazione che quasi ignorava di possedere, accettò di farsi prendere. Non fu in realtà una scelta. Assomigliò più che altro ad una necessità inderogabile e quasi dolorosa; non voleva mostrarsi malleabile e tenera davanti a quei due occhi argentei che la trafissero come lame acuminate. E quegli occhi, così belli e così unici, aumentarono una vertigine che non era neppure certa se chiamare fisica. Avrebbe voluto rispondere ma le mancava il fiato, come molli erano le sue ginocchia. Stava cadendo: il cielo si allontanava come una macchia indistinta, punticchiata di colori che non avrebbero dovuto appartenergli e invece ne era pieno.

    Pareva essere uno soltanto, tuttavia, il ricordo che meglio s’era agganciato alle sue sinapsi intermittenti. O meglio, un colore. Il suo cervello grondava rosso, grondava ruggine e pigra lava, in contrasto a due occhi tanto chiari da far male.
    E’ complesso spiegare cosa rappresenti una resurrezione. Uno crede si provi una specie di gioia assoluta, uno strato di grazia che deriva dal fatto di essere ancora vivi, di poter respirare e usare la parola “futuro”. La verità, invece, è che dopo l’agonia non ti aspetti più nulla e quando ti ritrovi ad aprire gli occhi, ti sembra di essere stato in qualche modo defraudato. Senz’altro preso in giro. Ariádne quel gioco beffardo lo rivide nello sguardo cristallino dell’uomo-nuvola, piantato come una bandiera nelle montagnole di terra che ne screziavano gli angoli. Difficili da scorgere, ad una prima, distratta occhiata: ma erano lì, li vedeva. E ne venne sopraffatta.

    Grushen’ka scosse lentamente la testa. Una, due, tre volte, come se anche lei avesse bisogno di convincersene. Si conoscevano o conoscevano le sbavature di una storia nella quale s’erano ritrovati incastrati come personaggi secondari destinati a non incrociarsi mai, nemmeno in una stessa pagina?
    Lentamente, sganciandosi a fatica dal pennino che la teneva rilegata a quell’inchiostro maledetto, sbottonò il polsino destro della camicia color caffè, arrotolandone le estremità fin sopra la piega del gomito. Aveva il brutto vizio di dimenticarsene molto spesso e allora era costretta a passarci le dita sopra per sentire il punto nel quale la pelle era più tirata, rattoppata per qualche centimetro in lunghezza da mani poco esperte. Il tempo ne aveva smorzato i toni, tendendo al pallido chiarore dell’incarnato, ma brillava a sé stante di un bianco totalmente differente. Piegò l’arto asciutto, appoggiando le dita poco sotto la curvatura della mandibola, così che l’avambraccio fosse del tutto esposto allo sconosciuto.

    - Quattro anni fa…- iniziò. La sua voce era tornata a tingersi d’ombra, tanto da assomigliare ad un eco scomposto plagiato dalla pioggia. - …c’è stato un crollo. No, non un crollo. La terra ha letteralmente spalancato le fauci e inghiottito quanto aveva a disposizione. Ma io lo ricordo. Ti ho visto, mentre venivi ingoiato. Eri lì. E ora sei qui – parevano monosillabi, ma la sua bocca si scioglieva in piccoli ictus di istantanee realizzazioni.
    Così, senza pensarci, come mossa da uno spasmo involontario, allungò il braccio scoperchiato verso la cupola di blu che ancora proteggeva la testa dell’uomo-nuvola. Leggera ma infida come una raffica di vento scozzese, ne andò a svelare il segreto con il nervosismo a macchiarne le dita. Se lo aspettava, ma era rimasta fino alla fine aggrappata a quella misera percentuale di delirio. I crini umidi e spettinati sfuggiti alla presa del tessuto impermeabile assomigliavano ad un emorragia in espansione, alla ruggine che infesta il sangue e ne ottura le arterie.
    Rosso.
     
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    - Francamente non me lo spiego. -

    - Che vuoi che ti dica? È meglio così, no? -

    - No, certo, è decisamente meglio così. Ma non capisco. -

    - La fortuna che puoi pescare da una disgrazia, spesso, ha dell’incredibile. È stato schiacciato, sì, ma… -

    - Lo hanno raccolto con i cucchiaini da tè, era… scomposto. E se non si trattasse di fortuna? Se fosse un miracolato. -

    - Gundula… Gundula, tu deliri. -

    - No. No, Holm, io sono presentissima a me stessa. Tu lo hai visto, io l’ho visto e adesso eccolo. Eccolo lì. Malridotto, è chiaro, ma guardalo. Respira. -

    - Questa tua ristrettezza mentale mi sconcerta. Hai il sangue puro di una strega o no? Cosa farnetichi? Mi vuoi parlare di Dio? Qui?! -

    - Smettila immediatamente, Holm. Se non puoi accettare il mio sconcerto d’accordo ma sei un Guaritore. Attieniti al tuo ruolo e non svegliare questo poveraccio. -

    - Farai bene ad attenerti anche tu, Gundula. I vaneggiamenti religiosi non si addicono al nostro mestiere né alla nostra natura, abbiamo fatto tanto per arrivare fino a qui e tu non vuoi essere sbattuta fuori dall’ordine. O sbaglio? -

    - Che delusione. Ciò dimostra che sei tu l’ottuso. Sei tu, Holm. -


    A quel punto Jo eruppe in un mugolio apparentemente inconscio. Quella maschera di morte beffarda venne scalpellata da una minuscola smorfia di fastidio e i due medici si zittirono di colpo. Gundula emetteva fumo dalle narici, rigida sul posto. Holm, paradossalmente, sobbalzò per il terrore che Jo gli suscitava sin dal suo arrivo in ospedale e per poco non ridusse in frantumi una flebo. Erano giovanissimi, Gundula e Holm. Sembrava amassero disquisire di filosofia, teologia e sangue al capezzale di Hicox. Sembrava un appuntamento fisso, durante il quale lo studiavano in una maniera ben oltre la discrezione e lo spogliavano secondo concetti per nulla relativi agli indumenti. Era peggio. Era umiliante. Si appostavano a litigare sul sonno profondo e sconnesso di Jo, allegoricamente lo incidevano con una lunga “Y” sul torso e poi gli vomitavano dentro la frustrazione. L’incomprensione, le divergenze di opinioni. Il reiterarsi di un meeting inutile, la convinzione che quello fosse il luogo più furbo e opportuno per offendersi reciprocamente. La vera ragione di quegli scontri non risiedeva nella straordinarietà del fatto, aveva origini d’altra specie. Banali, umane nel senso più dispregiativo del termine.

    Jo Hicox era sopravvissuto al Luccichio di Knospe perché, come tentava di convincersi Holm, lo avevano mancato gli stessi massi che, per altri, si erano rivelati fatali. Né più né meno di quello. E Jo non pensava di avere memoria delle loro conversazioni concitate. Non sapeva che, di lì in poi, avrebbe cominciato a ricordare. Sarebbe stato nuovamente vittima di una frana. Un altro genere di frana, a suo avviso peggiore e dalla quale era ancor più difficile fuggire indenni. Non si era dovuto sottoporre a ipnosi o a veri e propri lavacri in enormi Pensatoi che contenessero ricordi altrui. Che lo illuminassero così come gli luccicavano addosso i frammenti d’argento. Tramite un meccanismo ben più subdolo e infinitesimale, qualcosa del suo Passato era tornata di botto nel suo Presente per ammorbargli il Futuro. Un click, due occhi di miele ardente, la minuziosità chirurgica di un frenulo che viene ricucito a delle fauci martoriate.

    A seguire, gli venne fornito un indizio più preciso che andò a rivelarsi sul braccio della sconosciuta: una cicatrice gemella delle tante e tante che striavano i propri arti inferiori. Gemella non solo per via della profondità del solco o del chiarore lunare che le contraddistingueva. Erano ferite veterane, provenienti dalla stessa guerra terrosa e ricongiuntesi in fili sbilenchi di perle.

    Come se non bastasse, la sconosciuta parlò. Gliel’aveva chiesto lui ma, non aspettandosi di ricevere risposte simili, assunse la sfumatura del cipiglio di chi ci ha ripensato. Stava cominciando a capire una parte infinitesimale di ciò che presto avrebbe accomunato i due maghi intinti nel buio e tanto bastava a indebolirlo. Percepì il sangue spostarsi e precipitare lasciando dietro di sé un manto di pizzichi sottopelle. Se possibile, era divenuto un cencio ancor più bianco e avrebbe vomitato se il suo stomaco avesse contenuto qualcosa oltre alla bile. Tuttavia, benché le sue interiora fossero in rivolta così come ogni ingranaggio organico nel suo corpo, all’esterno rimase di sasso. Immobile come la statua cui somigliava (non che fosse un complimento), si trovò schiacciato dall’oscurità. L’assenza di connotazioni tutt’intorno, rendeva fin troppo agevole rievocare ambienti che credeva inghiottiti per sempre. Oscillò appena, quando la strega si sporse con l’intento di osservarlo meglio. Strattonato il sipario, anche lei dovette fare i conti con una conferma che già aveva ottenuto.

    - Mi ha risputato. - sussurrò rauco, burattino di un’agnizione. Quella storia l’aveva raccontata tante più volte di quelle che avrebbe voluto ma si era sempre e solo trattato dell’illustrare una copertina. Rilegata, intarsiata, precisa nella sua costruzione ma si trattava dell’involucro. Il libro era tutto da sfogliare. Certo, Birke era lì, ovvio che la terra non lo avesse digerito. Certo, lo sapeva grazie al solo fatto che fosse in vita ma lo capì davvero in quel momento. In quel preciso istante, si accese dell’inquinamento luminoso di cento epifanie: - La terra mi ha risputato. Non mi ha voluto. - ripeté, abbandonando il vuoto che gli offuscava le pupille e passando alla piccola sagoma sotto di sé. Non aveva paura di scrutare la patina di resina che faceva sembrare il suo sguardo bagnato. Era superficie, solo superficie. - Come ti chiami? -
     
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    Dicono che quando si finisce per diventare spettatore inerme davanti l’improvvisa rappresentazione di un tramonto spennellato di ferro liquido e sangue, siano i corvi a farsi portavoce di quella lenta e sofferta dipartita. Come se volessero assicurarsi che un’esplosione di pochi secondi si porti appresso i brandelli di uno strascico lungo una vita intera.
    All’inizio, era stato difficile ricollegare quella danza di penne nere ad un momento di rottura specifico. Talvolta il tormento è tormento e basta, lo accogli come l’ultima e unica cifra del tuo essere e ringrazi; in fondo, meglio quello che il vuoto. Ariádne, dunque, ne era convinta. Percepiva la propria anima disseminata in mille corvi che giravano in tondo, gridavano, prendevano fuoco; dormivano o si zittivano improvvisamente, talvolta, ma senza morire mai. Forse si nascondevano nell’ombra quando cercava di strapparli al cielo, uno per uno, ma poi ricominciavano con quel gracchiare beffardo che di umano aveva solo l’intenzione di deriderla. Non li sopportava, li odiava, ma forse se non li avesse visti volare non avrebbe più saputo cosa farsene, del cielo.
    Ne era talmente perseguitata che aveva iniziato a rivolgersi a loro come i “miei corvi”, nel raffazzonato tentativo di imparare a convivere con la consapevolezza che forse, semplicemente, era lei ad infestare se stessa e quel corpo che si ritrovava insofferentemente ad abitare. Altre volte, invece, li osservava passivamente senza sapere effettivamente cosa fare; restava seduta e li guardava, con un terribile senso di inevitabile disgrazia a risalirle il petto e ad annidarsi tra la laringe e l’esofago. Ogni tanto li vedeva con i becchi insanguinati, e si domandava di chi fossero, questa volta, gli occhi e le interiora con i quali avevano giocato e di cui, infine, s’erano nutriti.

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    Potevano trattarsi dei suoi occhi e delle sue interiora o di quelle di qualcun altro, alla fine non esisteva identità nella carne lacerata. Non riusciva dunque a capire se i versi filtrati da quei becchi aguzzi, di fronte al suo orrore, fossero una risata, un pianto o entrambe le cose. Aveva paura che i loro occhietti infimi rimanessero aperti anche se morti e che la guardassero da dentro per il resto dei suoi giorni, se mai fosse riuscita ad abbatterli. Che per vendicarsi, l’avrebbero fatta lentamente impazzire gracchiandole nel cervello. Eppure, in cuor suo, non era totalmente in grado di reprimere la sensazione che non fossero davvero lì per tormentarla; semplicemente, non potevano allontanarsi troppo, non potevano volare via, poiché dipendevano da lei.

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    Erano almeno un paio d’anni, tuttavia, che la sua personalissima cupola celeste era rimasta sgombra, anche nelle giornate in cui il cielo assumeva una minacciosa sfumatura madreperlacea, strappata al ricordo incastrato ai fili neri e fondenti di quelle creature tanto belle quanto nefaste. Le sembrava assurdo non essersene accorta, allora, ma anche Knospe ne era piena. Da dietro le palpebre, riusciva ancora a vederli appollaiati sulla colata di macerie, sfumati dietro una coltre di fumo e polvere; più mani disperate cercavano di scacciarli, nel vano tentativo di salvare l’insalvabile, più la presa di quelle loro zampette si faceva salda, alla roccia e alle ossa. Anche in quel momento, protetta dall’ombra e dalla presa dorata di quel contenitore guasto, una paralisi preventiva le impediva di volgere la testa e lo sguardo in direzione della vetrata, per paura di scorgerli mimetizzati al cemento, ai tetti spioventi e alla pioggia stessa.

    Ma forse non aveva bisogno di spingersi così lontano. Che sciocca a pensare di poter ancora vincere, non aveva proprio imparato nulla. In fondo, loro potevano insinuarsi ovunque, non conoscevano il limite della distanza o delle pareti fisiche. Tantomeno, non conoscevano il limite del tempo o delle volontà assopite. Anche le iridi dell’uomo-nuvola avevano perso l’ultima stilla di rassicurazione che poteva pensare di strappare, diventando uno stagno pesto e contaminato da mani corrotte. No, non mani, ma becchi e ali di petrolio. Parevano beccarlo ovunque, macchiandolo con il proprio nero e accartocciandolo sotto un flagello che nascondeva l’intenzione di richiamarlo a sé, ancora e ancora, anche a distanza di così tanti anni. Volevano riprenderselo e, se da una parte lui non sembrava in grado di dir loro di no, lei lo guardava come una Gorgone difettosa, bramosa di strapparlo alla pietra anziché condannarlo.

    - Lo dici come se avessi preferito il contrario – le sillabe abbandonarono le sue labbra come uno sputo acido, controllato dallo spasmo dell’incomprensione più che dalla reale volontà di trafiggerlo. Le sue frecce erano consumate, non avrebbero potuto trapassarlo nemmeno volendo. – Come se avessi potuto scegliere
    Non lo stava giudicando, come avrebbe potuto? In fondo, solo un pazzo sarebbe stato capace di scegliere di rimanere in vita per metà e farlo continuando a tastare alla cieca, venendo perforato da tutti i cocci di un presente precario rimasti disseminati a nutrimento di una terra morta.
    Solo allora, la realizzazione la travolse. La corsa forsennata di Mortimer lo era stata davvero, una scelta; e non perché risiedesse in lui il germe della pazzia, ma perché quel poco che aveva non gli bastava più. Forse era per quello che il suo nome non era stato aggiunto alla lista delle vittime. Imprimerlo con l’inchiostro significava mettere la firma su una confessione e ammettere che quel ragazzino lo avevano ucciso gli uomini, incuranti di una vita umana apparentemente priva di significato, e non due sassi venuti giù dalla montagna.

    Il braccio, che non s’accorse di tenere ancora sollevato a mezz’aria, le ricadde improvvisamente lungo il fianco; si sarebbe aspettata un tonfo sordo, come un sassolino che buca lo stagno e ricade sul fondale poco profondo, ma il breve attrito con la stoffa dei pantaloni produsse solamente un’impercettibile fruscio.
    Ora, i corvi attorno all’uomo-nuvola, non li vedeva più. Come se si fossero trattenuti dallo strappare solamente le brutture e quei lembi di pelle grondante agonia, ciò che lasciarono indietro fu un semplice involucro – vivo e vibrante, stranamente -, ma più simile ad un’impalcatura di sole ossa e cicatrici e sgomento e incredulità e rassegnazione, forse. Sotto sguardo attonito, lo vivisezionava come se si fosse imbattuta in un tesoro raro e prezioso, nella bocca del luogo più impensabile.

    - Ariádne. E tu? – si svelò con voce sottile e titubanza di bambina, con l’approccio che si riserva alle nuove scoperte ma si mastica tra i denti il timore di lasciarsi, a propria volta, scoprire.
    Pete? Marke? Isaak? No, loro non sono stati risputati come è successo a te.

    Edited by Ariádne Landysh - 11/9/2021, 14:40
     
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    Jo Hicox aveva l'urgente bisogno di fare grip sulla faccia di quella ragazza. Emersa dai flutti ambrati come una ninfa del miele, era viscosa. Ricoperta di una guaina appiccicosa e spessa. Una stratificazione che andava auto-rifocillandosi malgrado ella fosse ormai risalita dal fondo del suo stagno aureo. L'effetto di una cascata preziosa e senza origine visibile in quanto, la sua fonte, risiedeva all'interno della ninfa stessa. Com'era giovane e com'erano giovani le curve del suo viso. Era già arduo di per sé trovare appigli in quel paesaggio antropomorfo e tondeggiante, figurarsi se ricoperto di una linfa zuccherina solo all'apparenza. Una linfa che piangeva in lacrime dense, pesanti, copiose portatrici di incidenti. Era un pianto metaforico in cui Jo non riconosceva debolezza. Uno spettro in tenera carne e salde ossa infestava il cervello di Jo con il passato. Anzi, vari passati mai vissuti ma capaci di illuderlo e ingozzarlo del nettare speziato. Le gambe regredite a un'adolescenza complicata, rispondevano avverse alla necessità dell'uomo ormai speranzoso che le labbra della ragazza non scacciassero la sua presa con un morso. Non sarebbe durata perché, mentre scivolava via dalle grinze nella sua bocca piena, mentre le spellava senza intenzioni, la somatica della sconosciuta prese a mutare. Illuminata di un'epifania a lungo stipata sotto vecchi stracci di rimozione e shock post-traumatico, perse i colanti e dolci belletti al fine di svelare una pelle che velocemente imbruniva. L'umanizzazione di un felino di grossa taglia in tutti i dettagli più fieri e sporgenti del muso. Niente più capelli ondosi di sole. Niente più capelli, punto. Alla lunghezza esagerata del collo non avanzava nemmeno un millimetro che salvasse il mago dal suo destino rischiarato. Stava succedendo di nuovo e quella era l'immagine ancora integra di Etta Shawshank.

    Jo dovette strizzare violentemente le palpebre e fu come spremere fuori da esse un gas terribilmente urticante. Le strinse forte, fortissimo sino a renderle caos in quei bivacchi depredati che erano le orbite. Ci dovette aggiungere la pressione di due dita e venne obbligato a strofinarle senza pietà sino a ripescare il senso della vista ma velato. Innanzi a sé, un rosso tendaggio trasparente e sgarrato dai capillari rotti non era valso a risolvere il suo problema. Sul bel viso della giovane continuava a sfarfallare una lampadina quasi completamente guasta. Il suo isterico ammiccare, alternava sprazzi di luce a sprazzi di buio. Nel buio, Hicox vedeva il presente concreto; nella luce vedeva Etta Shawshank, della quale aveva ricordato nome e cognome in quell’esatto istante. Si ricordò l’ossessione sviluppata nei confronti di quella strega ormai defunta, come se altri poveri diavoli non fossero rimasti uccisi nel crollo. Perché lui, Etta, l’aveva vista nell’esatto istante del trapasso. Durante il fulgido passaggio dal terrore che la rendeva eccessivamente viva alla distruzione di parte del suo cranio, ragione per cui poi si era spenta. Opacizzata. Quelle iridi brune e senza fondo s’erano ridotte a superficiali chiazze d’inchiostro su un pavimento. Le sclere riempite di polvere perché Etta non sarebbe mai più stata capace di sbattere le ciglia. Perché così? Perché adesso? Che quel giorno fosse iniziato nel modo più tragicomico possibile come avvertimento? Se lo chiese ancora e ancora e quella presenza insistente al suo umilissimo cospetto non rendeva le cose più semplici. Anch’ella turbata, reagiva diversamente ed emanava un’aura caustica di cui l’artigiano scoprì di necessitare.

    Avrebbe voluto dirle che sì, c’era stato un periodo in cui sarebbe stato meglio il contrario. Infinitamente meglio. Avrebbe voluto dirle che si sarebbe volentieri sostituito a una delle tante divinità in cui la gente credeva per scegliere. Sarebbe rimasto in silenzio, avrebbe incassato ma non perché si vergognasse di quei pensieri. Semplicemente, sotto quello sguardo resinoso, appariva fin troppo nudo ed eloquente. Sarebbe risultato ridondante e basta.

    - Jo. - tagliò corto, cercando di tenere imbrigliato un principio di panico. La mandibola pulsava e le narici si tendevano al fine di ospitare quell’aria che non gli sembrava più abbastanza. Ariádne, quindi. Sembrava desiderasse impiegare il suo filo in attività che comprendessero il raccapezzarsi, certo, ma non facendolo adagiare tra le pareti di un labirinto fisico. Forse, con quel filo, voleva strangolare l’Indicibile per il solo fatto d’essere riapparso e di poter ancora sanguinare.

    - Ariádne, senti: possiamo andarcene da qui? Puoi… puoi portarmi altrove? Da qualunque altra parte mi sta bene. Sento che, se restiamo, succederà ancora. - difficile trovare una spiegazione semplice a quelle parole ma Birke credeva che quella piccola donna avesse capito. Che avesse una soluzione improvvisata in tasca, fosse anche passare oltre quel gorgo oscuro e infilarsi in un ufficio. Su una terrazza, nel mezzo di una rampa di scale…
     
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    C’era una volta uno stregone che viveva in una casa diroccata sulla scogliera. Tutti ne avevano paura ma nessuno aveva il coraggio di ammetterlo. Si raccontavano strane storie su di lui, giù al villaggio, nelle notti in cui la pioggia scrosciante costringeva quei corpi umidi a riunirsi intorno al camino. I più giovani cercavano di convincere gli anziani a raccontare loro, per la milionesima volta, le torbide storie dello stregone. I vecchi sbuffavano, chiedevano una dose extra di vino bollente, poi si schiarivano rumorosamente la gola e iniziavano a parlare. I racconti erano vari e differenziavano fra loro praticamente in ogni cosa, ma iniziavano tutti nel medesimo modo:

    - E’ un giovane, questo è sicuro. E quando la terra trema, è perché il suo corpo non è in grado di trattenere il dolore –

    Era raro, ma a volte lo stregone scendeva in paese per fare compere. Si faceva largo tra la folla del mercato con incedere incerto, pieno di scatti, come se fosse stato a lungo seduto e nel frattempo avesse disimparato a muovere le gambe. In ogni stagione, lo si vedeva coperto da un lungo mantello, il viso costantemente nascosto da un cappuccio nero, le mani aggrappate alla stoffa interna della veste.

    - Proteggici signore! – esclamava il prete, facendosi il segno della croce.
    - Amen – replicava un coro di astanti.
    Nessuno sapeva che faccia avesse perché nessuno osava guardarlo negli occhi.

    Un giorno, la terra tremò talmente forte da sovrastare il rumore delle onde, costantemente adirate con la roccia spigolosa di quelle scogliere. Fu così improvviso ed inaspettato che le vetrate delle case accolsero uno ad uno, i volti straniti di chi le abitava.
    - Guardate! – ululò qualcuno, puntando il dito senza che gli altri potessero davvero vederlo. Eppure, gli sguardi dei presenti si incrociarono tutti alla sommità del promontorio e alla fiamme che, lentamente, stavano avvolgendo la vecchia casa dello stregone. Come se un fulmine l’avesse punta e uno sciame impazzito ci si fosse accanito contro.

    - Chiudete le tende, non uscite! Sta per succedere il finimondo, vedrete -


    Nella nebbia lattiginosa e indistinta dei fantasmi della coscienza, la scia del ricordo era più vivida che mai. Cercava di inseguirla sperando di coglierla, fosse pure per una stolida contaminazione, ma essa tendeva a sfuggirle senza che potesse davvero avvicinarsi. La luce scenica, artificiale, che li circondava e la faceva pensare alla morte non concedeva pace alla coscienza, alimentando incubi lisci quanto le vetrate colorate dalle quali filtravano e che avrebbe voluto cavalcare alla ricerca di una ragione per il suo sentirsi così sbilanciata e fuori fuoco. Sconfitta e inesorabilmente lontana da una meta che sembrava preclusa solo ed unicamente a lei. Chissà per quale perverso motivo, poi. Spaventata e spaventevole, correva con la mente entro le maglie centrifughe di un vicolo cieco come a volte, da bambina, le capitava di infilarsi nella selva ordinata del guardaroba di suo padre, come un piccolo felino che rivede in quello stesso ordine una dichiarazione di guerra: minuscola, insignificante, ma già con i denti affilati per ammazzare.

    - Trattieni il respiro ancora un po’, Jo. Nessuno tornerà a reclamarci – non v’era premura, nel suo tono di voce, ma la volontà d’impartire un ordine che non ammetteva replica. Tuttavia, le parole si susseguirono modellate da un’innaturale morbidezza, come quando, con la mano, ci si fa scudo per attutire l’impatto con un oggetto scagliato da un impeto incontrollato. La mancina andò solidamente ad aggrapparsi alla spalla frastagliata dell’uomo, impartendo una leggera pressione con i polpastrelli come a volersi assicurare fosse in grado di resistere ancora per una manciata di minuti, senza sgretolarsi su se stesso come la montagna che lo aveva vomitato.
    - Seguimi

    Sapeva che se si fosse fermata un altro po’ ad osservarlo rilanciare all’esterno flutti incattiviti di angosce mal riposte, ne avrebbe perso la struttura portante e non sarebbe più stata capace di distinguerlo nell’ombra entro la quale s’erano rilegati. Non che facesse differenza, ma ora che la sua vita era tornata ad impiastricciarsi di quella particolare tonalità di rosso, non era poi così sicura sarebbe stata nuovamente capace di lasciarla sbiadire oltre le vetrate del tempo. Anzi, aveva solamente timore che la pioggia rendesse i toni più vividi, cangianti e chiassosi.
    Così, gli diede le spalle e, come aveva fatto una manciata di minuti prima, prese a camminare senza dargli particolari indicazioni. Anche dopo sette anni, vi erano angoli, di quell’edificio, che non comprendeva fino in fondo ma che apprezzava proprio per la loro misteriosa stoicità nel far perdurare il ricordo di vecchie ferite.
    Accanto all’ordinata fila di vetrate, una stretta apertura si affacciava su un doppio giro di scale a chiocciola, rigorosamente in pietra. Ricordavano le strette salite di un castello, quelle che solitamente conducevano alle torri più alte, ma il cammino dei due Viandanti si sarebbe dimostrato stranamente breve. Quello strano portale, a dirla tutta, risultava essere un pugno in un occhio, se messo a confronto con l’arredamento barocco e sfarzoso della Banca ma, chissà per quale ragione, la maggior parte degli addetti ai lavori parevano non notarlo nemmeno.
    Un silenzio vischioso si sarebbe premurato di accogliergli, insieme al grigiore filtrato da nuove vetrate decorate. L’ambiente, effettivamente, ricordava lo spazio circolare di una torre, anche se decisamente più ampio e luminoso; la luce, poi, non incontrava resistenza poiché non vi erano mobili ad ostacolarne il passaggio. La prima volta che vi aveva messo piede, Ariádne non era riuscita a non pensare alla Torre di Astronomia, quella che nelle notti più limpide dei suoi cieli di ragazza, aveva accolto il peso di una malinconia intrinseca e gliel’aveva restituita in un bagliore di stelle.

    - Sai, anche questo posto è stato abbattuto, una quarantina di anni fa. Da un drago, pare – la donna mosse qualche passo, cauta, avvicinandosi alla schiera di vetrate e percependo immediatamente il freddo incamerato e trattenuto da quel sottile strato trasparente. – Quando l’hanno ricostruito, hanno voluto farlo esattamente come allora, anche se ora è uno spazio sterile, vuoto – non lo guardava in viso, ma era certa che la stesse ascoltando. Con un movimento fluido delle dita, fece leva sulla maniglia della finestra e ne spalancò una delle ante, lasciando che tutta l’aria di Londra, impregnata di fumi e pioggia, entrasse e occupasse gli alveoli di quel polmone incancrenito dal tempo e dalla dimenticanza. Alla medesima maniera, iniziò ad indietreggiare per lasciare libero accesso all’uomo-nuvola, così che anche i suoi polmoni tornassero a riempirsi dell’aria che era stato costretto ad inghiottire come allora, come polvere e sabbia e sangue.
    - Puoi respirare, adesso

    La terra sembrava un’ipotesi lattiginosa, inconsistente.
    Grushen’ka frugava i profili irregolari delle case, quasi la distanza fosse solo un’illusione dei sensi, ma la sagoma di Jo continuava ad interferire con la messa a fuoco, diventando lui stesso il prolungamento di un tetto ricurvo e prossimo al cedimento.
    Ti sei accontentato di ciò che è rimasto?, avrebbe voluto chiedergli.
    - E tu? Sei stato capace di ricostruirti, da allora? – gli domandò, invece.

    Edited by Ariádne Landysh - 1/10/2021, 10:54
     
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    Substrato del sottile tetto di miele, roccia.
    La copiosa e lenta fluidità di quel nettare che coloriva Ariádne, era in realtà una lente liquida su uno scoglio. Scrosciava a rallentatore, si increspava e creava nuovi livelli distorcendone l'immagine sotto. Epitelio dal gusto dolce che invitava a essere leccato al preciso scopo di rivelare le aspre frastagliature sotto. Che Ariádne lo facesse o meno di proposito, non era dato saperlo. Che fosse per rivolta a se stessa o al mondo, nemmeno. Le discordanze che quella ragazza ospitava fra finestre aperte e porte blindate, si traducevano in una dodecafonia ipnotica. Hicox pensò che quei controsensi non fossero figli del caos. Pensò che tanta durezza cesellata e salmastra le donasse alla stregua delle pigre onde d'ambra fra le sue scapole. Ariádne esisteva e coesisteva, probabilmente la si poteva accettare solo così. Senza sconti o compromessi. Era giusto. A tratti intimidatorio, a tratti fornitore malevolo di ossessioni. Perché sì, nel vivo della sua crisi, Jo capì di essere ossessionato da quella figura di donna. Aveva iniziato a studiarla ancora prima di rendersene conto. Annotava rotoli di appunti, si odiava e li bruciava continuando ad annotare. Mentre la seguiva, comprese di non poter attribuire un simile morbo a ciò che per lui rappresentava Ariadne. Quella, un'aggiunta atroce e disarmante al loro incontro ufficiale. Il Luccichio di Knospe non faceva altro che accentuare gli spigoli di lei. Gli stessi spigoli contro cui l'uomo avrebbe probabilmente sbattuto a priori e, livido, sarebbe colato a picco. C'era del mare anche intorno ad Ariádne Landysh.

    La seguì, dunque. Il capo chino e le sopracciglia così contratte da invertire la loro fisionomica linearità. Muoveva falcate a caro prezzo, saliva scale, si addentrava nei segretucci della banca senza trattenere gli umori del percorso. Ciò accadeva perché forse muoveva e si addentrava in un concetto più che nella solida e opulenta concretezza dell’edificio. Quella ragazza era convinta che nessuno sarebbe tornato a reclamarli? Si riferiva ai colleghi o, molto più plausibilmente, ai partecipanti della festa alla cava? Le avrebbe volentieri dato ragione, d’altronde non soffriva di manie di persecuzione ma preferì tacere. Scelse un’altra dose endovena di silenzio perché, dal canto suo, veniva reclamato costantemente. L’unica differenza rispetto a prima era che, quei reclami, adesso li distingueva. Li sentiva uno a uno, ne percepiva l’unicità. Che fosse il cicaleccio precedente al disastro, che fossero grida, nubi di agonia tossite nel buio, cacofonie viscide o secche. Organi, ossa, terra e argento avrebbero incalzato con nitidezza, d’ora in poi. Non era colpa di quella strega. Anche lo fosse stata, si trattava di una responsabilità condivisa e dolente che li aveva bastonati senza preavviso. In maniera meschina, codarda, alle spalle. Un ritorno di fiamma, esempio di recrudescenza. Un rigurgito che portava con sé vecchie abrasioni di bile ma anche nuova: il nascituro rapporto tra i due Viandanti, in effetti, era una bruciatura neo-assunta lungo l’esofago degli eventi.

    A causa della fatica nel salire le scale, l’affanno di Eisen sembrava libero di fluire. In realtà, non era ancora riuscito a respirare davvero e, quella solenne marcia capitanata da Ariadne, aveva lo scopo di stanare il fiato. Largamente accerchiati da una stanza nuda, eccoli giungere nel luogo presente all’interno di una promessa muta. La Ragazza Pietra lo aveva condotto fra le pareti curve di un apparente abbraccio e la luce che vi gocciava all’interno si spandeva in un bianco ingrigito. Che fossero nella pancia di una perla? O nella pancia del drago cui si riferiva la Spezzaincantesimi? Malgrado fossero trascorsi minimo quarant’anni dall’episodio che lei aveva menzionato, l’Indicibile immagino la creatura ancora viva e vegeta. Albina, aveva assorbito la cagionevolezza londinese per poi attorcigliarsi alla torre. Un anello di squame a simboleggiare un matrimonio corrotto. Infrangibile.

    Respirare, quindi. Come il serpente a sonagli si lascia irretire dal flauto, Jo accolse il richiamo di una brezza contraffatta ma necessaria. Egli stesso avrebbe contribuito a intossicarla con la propria incoerenza. Più precisamente, tramite una sigaretta rollata prima di accedere a quell’incubo lucido. Prima di accenderla, non poté fare altro che ringraziare Ariádne inspirando. Incamerò un quantitativo lentamente crescente d’aria nei polmoni, il volto rimase teso. Poi, sempre lentamente, la rilasciò in un nugolo invisibile che immaginò schiacciarsi a ridosso delle nuvole. Le vertigini diminuivano, a poco a poco. - Siamo conniventi, adesso. -

    Fu quello. Quello il momento adatto a bruciare l’estremità del suo cancro in cartina. Mentre aspirava la prima, densa boccata si trovò a fissare la giovane con occhi pesti. Ai lati del filtro andò a piegarsi un sorriso inquietante dal quale fumigò. Una specie di breve risata moderatamente incredula. -Sai che faccio nella vita? L’artigiano. - perché lo era, pur avendo espresso un determinato pensiero a Von Vukich. - Ricostruisco cose perché, le persone, nascono già rotte e non ho strumenti in grado di ripararle. Credo di essermene convinto molto prima di allora. - Il famigerato “Peccato Originale” si prestava alla sua visione nichilista della faccenda. Ironia della sorte, mh? Beh, le doveva una risposta. Non si sentiva l’unico estirpato da Knospe come un dente del giudizio dalle radici a cuneo. Bastava prestare attenzione alla fisionomia di lei. Un pizzico d’attenzione.

    - Vorresti essere sterile e vuota, Ariádne? - Come questa stanza. Pensi già di esserlo? Aneli a esserlo? Nessuna delle due. Volontariamente, sfiorò il gomito di Ariádne con il proprio e le pieghe dei loro indumenti si salutarono. - Non ti ho convinta. Qualcosa di te mi crede ancora uno spettro. -
     
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    Esiste un detto che i londinesi accarezzano a fior di labbra, con l’orgoglio di chi non solo gode nel riconoscersi in un simile mot d’esprit, ma soprattutto è in grado di intenderlo e percepirlo fin dentro le viscere: “Quando un uomo è stanco di Londra, è stanco della vita, perché a Londra si trova tutto ciò che la vita può offrire”.
    Eppure, in quel momento, la città pareva essersi deformata per seguire le linee accartocciate dell’uomo-nuvola, assorbendone stanchezze e spasimi e tirandolo attraverso fili invisibili come una marionetta di fumo, destinata alla sola attenzione di uno sguardo fugace, prima di disperdersi aldilà del vetro.
    Mentre guardava da lontano i tetti butterati di tegole cedevoli spruzzati di pioggia – plick, plick, plick – si ritrovò a pensare con nostalgia, per la prima vera volta, che sarebbe stato proprio triste, andarsene a quel modo: come un accidente passeggero cancellato da una mano di bianco.
    Un errore dell’artista.
    Un momento di sbandamento da elidere senza pietà.
    Erano ancora certe grida a risuonarle dentro, confuse nel marasma di notti passate a sbirciare il soffitto liscio e asettico; pensò altrettanto intensamente che se non avessero smesso sarebbero state loro, a ricordarle di essere ancora viva e quindi ad ucciderla. In un qualche modo, tuttavia, vi intuiva una certa speranza soffocata, dietro, come se la pietra non si fosse ancora stabilizzata e nei tremori che la sconquassavano risiedesse proprio la speranza di vederla fare indigestione di tutta quella carne trangugiata in un impeto di incontrollata voracità. Non era un semplice pretesto per ripulirsi la coscienza, no. Era una delle ragioni per cui alla fine pensava ancora alla montagna come ad un rifugio, un alibi, una fortezza in cui rinchiudersi, con i propri ricordi e i propri clamorosi fallimenti. Fu in quella presa di respiro che si riscoprì bramosa di svelare se in quello scenario cristallizzato, vi fosse o meno un posto anche per Jo. O se, semplicemente, le loro esistenze fossero destinate a consumarsi in un breve condivisione d’ossigeno e niente di più. Se quel rosso rugginoso le sarebbe rimasto impresso tanto quanto lo vedeva ora, a palpebre serrate, o se si sarebbe semplicemente sciolto dietro le cromie desaturate di un’incertezza.

    E usciremo da questa miniera di luce, anche se siamo sporchi di polvere fluorescente.
    Grumi dolorosi di bagliori grezzi ci si sono attaccati ai capelli, alle sopracciglia, sotto le unghie.
    Spegnendosi, invisibili, ci bruciano i polmoni. Li senti?
    Ci muoviamo come automi, bramando un poco di buio: anche i tuoi occhi sono stanchi di vedere?
    Meglio tornare ciechi. Meglio che cercare di rubare lumicini che nell’oscurità si notano fin troppo.
    Meglio tornare all’oscurità da cui siamo venuti, mesti, in fila indiana, come inchiostro che si mischia e non si sa più a quale boccetta appartenga.
    Meglio, sì.
    Vieni?


    Ariádne lo affiancò, poggiando i gomiti appuntiti sulla piccola sporgenza rimasta scoperta dall’incastro della finestra aperta, inspirando a propria volta fiato acquitrinoso e fumo pungente, non riuscendo per un momento a distinguere dove finisse l’uomo e iniziassero i contorni meno netti del cumulonembo che portava il suo stesso nome. Senza pensarci troppo, allungò il braccio per intrappolare tra indice e medio la curva smussata della sigaretta, rubando un tiro a pieni polmoni prima di restituirla al legittimo proprietario.
    - Le cose rotte hanno un certo fascino – masticò fumo e sillabe prima di rilasciarli entrambi in un unico soffio appena percettibile. – Se fossimo un unico pezzo indivisibile, sarebbe ancora più difficile sbirciare oltre le crepe. Credo di essermene convinta proprio allora, osservando ciò che rimastosaremmo stati capaci di sbirciarci reciprocamente, se così non fosse stato?
    Il pensiero la fece vagamente sorridere; per lo meno, un ghigno che vi andava molto vicino. Riflettendoci, lontana da luminescenze troppo esposte, era la prima volta che, da quando s’erano scontrati qualche piano più in basso, si concedeva il lusso di abbandonarsi ad insolite morbidezze.

    Non durò tuttavia molto. Jo sembrava sapere esattamente quali accordi suonare per trovare il filo incastrato del marchingegno; la nota stonata in un mare limpido di armonie. Il volto di Ariádne parve come oscurarsi aldilà di un panno trasparente, ma opaco, trasformando i connotati in un grumo abbandonato al baratro, laddove non esistevano appigli oltre i quali mascherare la propria condizione di intermittente consistenza.
    L’uomo-nuvola non taceva, no. Si chiese per un attimo se non fosse stato meglio il silenzio, offrirle carità in menzogne, piuttosto che intrappolarla in una domanda che già si trascinava appresso una risposta sottintesa e che le ricordava, ancora una volta, quanto fosse lontana dall’essere un’Ofelia bianca di giglio ma, piuttosto, un’Ofelia con alghe nei capelli e ninfee accanto al viso cadavere.
    Ridusse gli occhi a due fessure, intrappolando il mondo di fuori in uno spazio infinitamente piccolo quanto lo erano le sue certezze, seguendo la linea dritta delle sopracciglia, incurvate a picco vero l’interno.

    - Nel tuo lavoro, ti è mai capito di riparare o costruire un oggetto cavo, spiarci dentro, e pensare che sarebbe effettivamente un buon sostituito per un corpo ormai rotto? Io vivevo in una mansarda, fino a poco tempo fa, che assomigliava ad una piccola scatola inondata di luce. E sai chi era ad infestarla? Io. Forse non ho mai davvero smesso, ovunque mi sposti – ogni parola pronunciata assomigliava ad un piccolo punto ricamato su uno scampolo di stoffa convertito a pagina bianca, sopra il quale annotare i frammenti di confessioni afone.
    Un minuscolo solco andò a formarsi al centro della sua fronte nivea, e solo a quel punto decise che tornare a guardarlo significava attingere ad una tavolozza di colori ben più ampia, qualunque fosse stato il prezzo da pagare per un masochismo involontario nel volersi rigettare a picco tra fiamme di tempera. Lo scrutò attentamente, per secondi interi, scandagliandone i contorni e riscoprendoli più marcati ad ogni rintocco di lancetta.
    - Mi sono sbagliata, tu non puoi essere uno spettro. In fondo, sei qui per offrire un’alternativa a quelli come me -
     
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