PARKOUR!

D. E.

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    Inqualificabile.
    Inqualificabile, poco professionale e di cattivo esempio.

    Questo, ciò che si sentiva di affermare Jericho Rosenbaum in merito agli atteggiamenti da parte di Felix Landa. Okay, era forgiato dalle bizze che caratterizzavano il norvegese e ciò lo aveva reso capace di una pazienza fuori norma nei confronti del suo migliore amico ma, nell'ultimo periodo, si comportava come se sulla sua testa rasata (di cazzo) pendesse una taglia clamorosa. Falafel era uno squinternato di prima categoria e Chorizo non aveva più capito molto dei suoi impicci con Louis D. Mayo. Quella volta, nella Serra, il giovane weirdo si era offerto di aiutare il tossichello a uscire dai casini ma, da lì in poi, la faccenda aveva preso una piega fumosa. Richo collezionava buche da parte di quello stupido Grifongiorgio e stava perdendo la voglia di dare la caccia alla versione smunta di Carmen Sandiego. L'unica cosa era sospirare amaramentee e lasciare che gestisse (male) i suoi traffici ma ricavandoci qualcosa. Una specie di dazio alla dogana, no? Un pegno, una tassa, una nota di demerito(?). Senza chiedergli il permesso (ovvio, praticamente era un furto), Jericho aveva sottratto a Felix un possedimento assai prezioso. Se l'era semplicemente intascato con una scrollata di spalle, abbandonando l'involucro vuoto nella tracolla consunta del vittima inconsapevole.

    ***


    - Su gentile - ma soprattutto consapevole - concessione del signor Landa Felice, stasera ci rilassiamo. - affermò Rosenbaum, spolverando l'eredità teatrale della nonna. In piedi sul proprio letto, si esibì in un annuncio shakespeariano con tanto di ampia gestualità. Che il suo pubblico fosse unicamente composto da Duh e Darla era un altro discorso e non intaccava in nessun modo la magia del dramma. Con la grazia di un Ippogrifo sui tacchi, piovve seduto a gambe incrociate e si decise a rivelare quel che aveva rubato al Grifone latitante e, beh, era erba. Inequivocabilmente erba, già rollata e pronta al consumo. Talvolta, essere adolescenti logorava ben più della vecchiaia e, quei due adolescenti in particolare, avevano estremo bisogno di staccare dai rispettivi cervelli. Dalle turbe, dalle paranoie... dal semplice esistere sulla faccia da schiaffi della Terra.

    - Ti ricordi come si fa? - chiese il Metamorfo con voce nasale, contraffatta dal fumo che tratteneva nei polmoni, mentre passava il testimone. Lo soffiò via in alto, alla sua sinistra e dovette strizzare una palpebra sull'occhio lacrimante. Non era esperto di giardinaggio, almeno, non di quella specifica branca ma gli parve di percepire un sapore vagamente diverso da quello cui era abituato. Non ci badò più di tanto ma scosse appena la frangia uncinata, come a scacciare le tracce di dubbio. - Piano, amica delle piante: due o tre tiri al massimo! - allertò il ragazzo prima di perdere ogni briciolo di credibilità e venire inghiottito dalla fantomatica cortina dolciastra.

    ***


    Probabilmente, il come non era chiaro a nessuno dei due ma, quello spinello, li aveva fatti materializzare davanti al quadro che celava l'ingresso alle Cucine. Non ricordavano l'intermezzo fra il raggiungimento del filtro artigianale e la decisione di procacciare del cibo, tuttavia, eccoli che si aggiravano in notturna con un eccesso caricaturale di furtività a muovere i loro passi. Il freak non era totalmente consapevole di indossare una delle vestaglie/accappatoi di seta che Zip sfoggiava con estremo orgoglio, eppure, ci svolazzava dentro come fosse una seconda pelle. La coppia di zombie delinquenti era uscita allo scoperto con addosso i pigiami perché una fame sì prevista ma improvvisa li aveva letteralmente spintonati fuori dalla Sala Comune di Tassorosso. La parte lucida e sopita dell'intelletto di Mosquito, suggeriva una varietà d'erba mai sperimentata dino a quel momento: doveva trattarsi della Sativa. La conosceva grazie a uno degli sproloqui dell'ignaro fornitore e sapeva che, al contrario dell'Indica, il relax non rappresentava l'effetto primario. In sostanza, stimolava la creatività e la... psichedelia. Insomma, non per forza a livelli ingestibili benché, di sicuro, le percezioni dello stramboide si manifestassero in maniera piuttosto inusuale.

    - La vedi la natura morta?! - raschiò Geko dal fondo della gola, voltandosi di botto in direzione della Earnshaw e rischiando di capitolare a terra. Eppure, si era addirittura messo gli occhiali da vista e, dietro le lenti, si spalancavano due occhi rossi da pazzo omicida. Si riferiva al dipinto contro il quale andò a sbattere e che fissò torvo, neanche volesse fare a botte con una delle mele ritratte. No, non doveva picchiare una mela bensì solleticare una pera. - Mi... scusi. Lo so che è... che è molto sconveniente e che... ma la prego, non è perversione la mia... - sì. Si stava giustificando con il frutto che, palesemente, suscitava un doppiosenso nel suo cervello ridotto a porridge. - Guardi, ecco, non se ne accorgerà nemmeno... - oscillava come una talpa ubriaca dall'oculista, brandendo l'indice senza beccare ciò che avrebbe fatto apparire la maniglia.

    - Senti, fallo tu. La signorina fa la ritrosa e io sono un uomo sposato. Lo accetto, non sono il suo tipo! - scompigliandosi la zazzera, il Tasso indietreggiò con l'espressione allucinata. Rivolse un inchino pericolante alla sua partner in crime e rimase piegato per qualche secondo. Il pavimento di Hogwarts non era mai stato così interessante.

    Edited by Jericho L. Rosenbaum - 10/5/2023, 19:30
     
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    Darlene non saltava mai i pasti ed era sempre una delle prime a scendere in Sala Grande all’ora designata per i suddetti - colazione, pranzo e cena. Non solo per deformazione professionale - i ritardi, a casa sua, erano puniti molto severamente -, ma anche perché, negli anni, aveva finito col costruirsi un rituale di accoglienza assolutamente non necessario e sopra le righe. Ogni volta che la soglia veniva superata dai connotati familiari di uno dei suoi amici, la Earnshaw scattava automaticamente in piedi e iniziava a sbracciarsi come un’ossessa; la dentatura abbagliate veniva mano a mano svelata aldilà di un sorriso smagliante e ogni centimetro conquistato pareva sottintendere una domanda che non veniva mai pronunciata ad alta voce, ma che sempre riusciva ad essere colta dalla persona cui era rivolta: hai dormito bene? Com’è andata l’ultima lezione? Hai finito quella maledetta relazione di Cura? Hai fame? Come stai?
    Malgrado questo, il suo rapporto con i pasti canonici risultava sempre molto travagliato. Figlia del disagio e delle sovrastimolazioni alienanti, alla fine della corsa il suo piatto rimaneva sempre praticamente vuoto; piluccava questo o quell’altro quando era sicura che nessuno la guardasse e, una volta alzatasi da tavola, era così stremata che le sembrava di essersi scofanata un vassoio intero di arrosto. Questo non giovava in alcun modo ai molteplici spuntini sgraffignati nel corso della giornata - per lo più schifezze immonde e zuccherine, oltre ai suoi amati mirtilli rossi essiccati che portava sempre con sé dentro la tracolla senza fondo -, così come non giovava alla distribuzione energetica all’interno del suo corpo, ridotta pressoché a picchi ingestibili nell’uno o nell’altro senso.

    Da un po’ di tempo, tuttavia, le cose erano cambiate. Al ritorno del fatidico pomeriggio ad Hogsmeade in compagnia di Olivia, per la precisione. Dopo aver salutato l’amica ed essersi ritirata in dormitorio, aveva consumato le ultime battute di quella giornata ricolma di rivelazioni dolorose nelle disgregazioni di un pianto disperato che, per la prima volta, l’aveva trattenuta dal presentarsi in Sala Grande all’ora di cena. Non che gli orari dei pasti si fossero tramutati in parentesi da evitare, ma non vi prestava più così tanta attenzione come prima e se anche le capitava di saltarne qualcuno, poco le importava. Non si poteva nemmeno dire che avesse iniziato ad evitare Jericho ed Olivia: l’idea di mettere in scena quell’allontanamento era tanto penoso quanto il doverci fare i conti quotidianamente. E per quanto la ferita fosse ancora fresca, morbida, pungente, ce la stava mettendo davvero tutta pur di ricucirla con gli strumenti inadeguati cui era in possesso.
    Vi erano momenti più difficili di altri, e questo era indubbio. Momenti in cui non trovava scampo dai pensieri più morbosi e distruttivi - auto-sabotatrice per antonomasia -, in cui sentiva il bisogno fisico di isolarsi per ricomporsi, raccogliersi aldilà di una parvenza di apparente quiete, rincorrere i sorrisi persi per strada. E allora si rintanava nelle serre, tra le piante che mai e poi mai l’avrebbero tradita; tornava a scalare gli alberi rinvigoriti dalla primavera e a specchiarsi nelle viscere del Lago Nero. Lei, che da sempre rifuggiva il silenzio dello stare sola, aveva finalmente capito quanto potesse risultare altresì salvifica, necessaria, la solitudine. Un porto sicuro.

    Certo, combattere e rimarginare le ferite di un cuore spezzato sopra il letto del proprio carnefice non era il massimo cui avrebbe potuto aspirare, ma quella sera il muscolo cardiaco aveva deciso di darle una tregua. Si cullava nell’illusione che tutto fosse tornato come prima e in effetti non era cambiato poi molto: Jericho era sempre il suo migliore amico, una delle persone a cui più teneva al mondo, le tinte più cangianti del suo universo saturato. La persona per cui il suo cuore, ahimè, ancora batteva più veloce del normale. Ora, però, non riusciva a non analizzare la sua presenza in rapporto ad Olivia, ai segnali che aveva chiaramente frainteso, ai castelli in aria che s’era costruita abusivamente sulla base del nulla. Sentiva di essere stata lei a tradire, di essere lei l’amica difettosa, incapace: paradossalmente, soffriva più per questo che per la delusione amorosa che il suo cuore adolescente macchiava di tinte tragicomiche.

    Con i piedi affondati nel copriletto spiegazzato e le ginocchia strette al petto - una delle due vette appuntite era diventata il giaciglio rialzato di Duh -, osservava con tanto di occhi il Rosenbaum, attualmente impegnato nel monologo raffazzonato delle sue losche intenzioni.
    Le sopracciglia fantasma scattarono immediatamente verso l’alto, mentre i lembi carnosi delle labbra si stirarono nella medesima direzione. - Quando mai Peach è consapevole? O meglio…quando mai Peach è cosciente? - la vocina sottile della Tassorosso, accompagnata dall’espressione malandrina, rivolgeva una domanda che non necessitava di alcuna risposta.
    - Dai qua - si limitò poi ad aggiungere, allungandosi a prendere lo spinello e attaccarsi laddove le labbra di Jericho già avevano lasciato la loro impronta invisibile. Inconsciamente, le stava regalando l’estasi di un’immobile evasione, così come immagini sopra cui avrebbe potuto fantasticare per giorni, da brava masochista quale era.
    Non aveva più fumato da quella volta alla rimessa insieme a Landa, ma ancora ricordava la dimostrazione silenziosa che il Grifondoro le aveva concesso e, da allora, la fascinazione per quel rituale cancerogeno era solo che aumentata. Tossichiò appena, come allora, ma l’impatto dell’erba fu meno ruvido rispetto alla prima volta e i suoi polmoni si abituarono immediatamente alla teoria messa in pratica da tutte le parti anatomiche coinvolte.
    Ah, ma quindi ci si sentiva così a fagocitare l’intera Mielandia?

    ***


    -…ma sei scemo?? Non vedi che così la metti ancora di più in imbarazzo?? Spostati, che è meglioooo - vista la risacca che il suo corpo compì in direzione del ragazzo, col fine di spostarlo così come gli aveva intimato di fare, fu immediatamente chiaro di come anche le sue capacità motrici fossero state pressoché resettate. Tuttavia, per chissà quale legge della fisica, Darlene riuscì a mantenersi in piedi e, sfoggiando una delicatezza per lei naturale ma assolutamente comica, in un contesto del genere, solleticò la pancia pelosa della pera, al punto che questa prese a sbellicarsi tra la Rossissima Mela e la Butterata Arancia, consentendo loro di varcare la soglia della Camera Blindata più ambita di tutta Hogwarts.
    Si sentiva leggera, una libellula; abbassò addirittura i piedi per sincerarsi che questi toccassero ancora a terra e, nel farlo, si rese conto di come solo uno dei due piedi fosse ancora fasciato dal calzino giallo limone che era solita indossare per dormire. - Gerì-choooo….chi mi ha mangiato l’altro calzino??? Sei stato tu??? - al che, scoppiò in una risata così fragorosa e al contempo cristallina che avrebbe potuto benissimo diventare la firma alla loro condanna a morte - Va bene, va bene, tanto a te lascerei fare qualsiasi cosa. Buona digestioneeee -

    Non era la prima volta che Darla metteva piede nelle cucine, ma era senz’altro la prima volta che assisteva a quello scenario totalmente deserto, a loro completa disposizione. I ripiani erano sgombri ed immacolati; le stoviglie erano riposte nelle credenze e alcune preparazioni necessarie per l’indomani sostavano, invitanti, sopra l’isola centrale della stanza.
    Gli occhi della Earnshaw si illuminarono immediatamente - a quel punto, impossibile dire se per l’erba o per l’eccitazione - e, facendosi largo in un groviglio di gambe chilometriche, raggiunse un vassoio stracolmo di biscotti. Improvvisamente, si ricordò d’aver saltato la cena, quel giorno.
    - Bissss-cottiii. Lasciami qui, Jericho, me li voglio mangiare t u t t i -
     
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    Non sai mai niente.
    Non capisci mai niente.

    Finché si è trattato di frantumare la fronte contro i tuoi dilemmi, tutto ti sembrava così chiaro... abbacinante. Certo! Peccato che tu non sappia mai niente. Peccato che tu non capisca mai niente. Se avessi saputo e capito, adesso, saresti cristallizzato. Ti sentiresti sprofondare in un precipizio senza fine e vorresti strapparti il cuore dal petto con il solo ausilio delle unghie smangiucchiate. Ti graffieresti, sanguineresti ma le ossa sarebbero troppo dure anche per te e sottolineerebbero il poco che vali. Se sapessi e capissi, ora, staresti vomitando la colazione, il pranzo e la cena di oggi. Staresti vomitando gli organi per l'orrore e il dolore che percepisci ma che, soprattutto, percepisce Darla. Lo cova con gelosia e autolesionismo, preferisce che tu non capisca. Che tu non sappia.

    Olivia è preziosa, ti ha fatto scoprire che non sei poi così grigio come la massa in cui ti perdi. O almeno, questo è ciò che credi tu proprio perché Olivia è preziosa, sì, ma non ti migliora davvero. Tu resti anonimo e meritevole di tutti gli angoli meno in vista. Olivia ti illude, ti colpisce con la sua bellezza riflessa ma, appunto: sua. Non tua. Sua. Sei davvero così superficiale? Come fai a non accorgertene? Vorrei che sapessi e capissi, così proveresti schifo. Proveresti un male più forte di quello che hai accantonato, convincendoti che non potevi guastare l'amicizia con Darla. Che stavi fraintendo te, lei, il mondo. Come sei stupido, Jericho. Brilli, sì, come l'involucro di un cioccolatino sciolto e calpestato.

    Stai tranquillo, però: il bello di essere l'Adolescenza è che ho il permesso di farti sentire una merda anche quando non sai e non capisci il motivo. C'è. La ragione c'è, eccome, ma tu sei graziato. Inconsapevole. Il minimo che puoi fare è sopportare l'amarezza di un retrogusto a te ignoto senza la capacità di raschiarlo via. Gratta pure, gratta. Tanto non te lo levo.

    ***


    Tra i motivi più o meno validi per assumere dell'erba, ne svettava uno. Acuminato e costante, vestiva i panni dell'Adolescenza proprio come fosse una persona. No, anzi, una divinità maligna, entità impietosa che la nebbia dolciastra smussava anche solo per un po'. Forse, nemmeno Darla aveva idea di quanto quel poco le sarebbe servito e no, non significava rifugiarsi nella tana della droga come ormai era solito fare Felix. Una boccata d'aria è un'espressione usata anche sull'ampio piano metaforico. Ecco. Una boccata di fumo avrebbe concesso una tregua ai due Tassi. Avrebbe ricordato loro che sì, stavano crescendo e cambiando ma restavano dei ragazzini cui era consentito comportarsi come tali. Con tutte le conseguenze del caso, certo.

    Jericho e Darlene, se lucidi e presenti a loro stessi, viaggiavano su binari paralleli: non si toccavano ma rimanevano vicini. Vicinissimi, sempre pronti a sferragliare l'uno per l'altra e viceversa. Adesso che una "cappa magica" di vapore li ospitava, si godevano vitto e alloggio; vi roteavano dentro come Vino Elfico in calice. Sperimentavano un viaggio divertente ma caotico e così i binari del raziocinio si intersecavano. Trasfiguravano i rettilinei di una realtà spinosa in nodi, trecce, abbracci e nemmeno un incidente tra vagoni.

    Ancora piegato in un inchino sbilenco ma molto, molto sentito, Geko fissava i propri calzini. Uno-due, uno-due... uno e due. Lui li indossava entrambi, nessuno sembrava averglieli rubati ed era un bene perché ci teneva tantissimo. Ne aveva una collezione fornitissima e improbabile. Al contrario, Darla sembrava la personificazione di un incantesimo Gnaulante perché a lei ne mancava uno e il dubbio ricadde subito sul suo migliore amico.

    Tanto a te lascerei fare qualsiasi cosa.
    Tanto a te lascerei fare qualsiasi cosa.
    Tanto a te lascerei fare qualsiasi cosa.


    Lazy Boy, tornando in posizione "eretta", assunse un cipiglio confuso ma indagatore mentre assaporava il nulla con fare critico. La lingua formicolante venne schioccata contro il palato, poi grattata contro gli incisivi. Quant'era ingombrante quella lingua, che fastidio! - In bocca ho un sapore strano: può essere il tuo calzino? Mi dispiace... - ed era sinceramente contrito per qualcosa del genere. Per qualcosa che ovviamente non aveva fatto ma che, nel suo mondo fumoso, possedeva un senso autentico. Era possibile digerire un calzino senza morire? Avanzò attraverso il groviglio di domande assurde che si mimetizzavano tra i suoi ricci esplosi ed eccolo immerso nel silenzio cremoso delle Cucine. Cremooooosooooo.

    Le pentole scintillavano come paparazzi d'assalto, facevano brillanti occhiolini da ogni dove e i lunghi tavoli di legno sembravano invitare chiunque a gettarvisi supini e scivolare da un'estremità all'altra. Cadere oltre e spaccarsi il cranio, presumibilmente. Comunque, non figurava nemmeno l'ombra di mezzo elfo e Rosenbaum si compiacque neanche fossero riusciti nell'impresa più pericolosa e complessa del Pianeta Terra. Come bambini da Mielandia, i due Tassi si sbalordivano innanzi ai manicaretti già pronti per il giorno seguente, resi buffe parodie di loro stessi dal pollice verde dimostrato poc'anzi. Una si fiondava sul vassoio gigantesco di biscotti e l'altro puntava il pane. Un intero filone dal peso specifico di Pedro (a lui, strafatto, sembrava pesante) che, come Ercole durante le Fatiche, il freak sollevò oltre la sua testa. Con notevole sforzo, lo spezzò in una pioggia di briciole che lo investirono nello stile dei temporali estivi. Dietro quella miriade di frammenti, Darla esisteva in qualità di perfetto idillio: attorno le apparve una cornice bellissima. Qualcuno doveva avergli sfilato le batterie perché, per un tempo indefinito, rimase a fissarla con aria lessa. Illuminata sulla via di Damasco.

    - Darla! Ciao. - salutò lo stramboide nuovamente acceso, prima di strappare del pane con un morso. Per poco non cadde dalla panca su cui si era seduto. - Allora: come te li senti, i denti? Solidi? Non ti prudono? - se li contò. Li puntellò con l'estremità contratta della suddetta lingua e ne attraversò le cuspidi, gli avvallamenti, le asperità. Masticò il nulla un paio di volte, poi tornò tranquillo all'idea di mangiare qualsiasi cosa gli capitasse sotto tiro. - Io qui ti ci lascio pure ma poi come lo spieghi a Chef Dreyf... üssenbergenbelsen? - il naso si arricciò e una fossetta gli perforò la guancia destra mentre immaginava quali atrocità avrebbe potuto compiere la strega francese se davvero li avesse colti in flagrante. Fragrante, aha!

    Mosquito scivolò sotto al tavolo con l'attitude di un sub per poi comparire dall'altro lato e prendere posto vicino alla sua personale Giovanna D'Arco. Giovanna D'Arla? La Pulzella D'Arleans? Sottrasse un biscotto al vassoio e si stese sul piano ligneo con la grazia di un Troll. Guardava la sua complice al rovescio e sorrideva, stupido, ai suoi connotati distorti. - Ri-ciao! - la zazzera, stava via via assumendo le tonalità dell'erba che avevano fumato.

    Edited by Jericho L. Rosenbaum - 16/5/2023, 16:35
     
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    Dentro il suo cranio, tra grinze grigie e cerebrali, sostava ora un centro di controllo.
    Era lì che Darla esisteva davvero. La vera Darla, non il fantoccio in balia di fumi ed illusioni temporanee. Manovrava un joystick immaginario, di un videogioco immaginario, ma non aveva il controllo di nulla, se non di una parziale apparenza. Le forze esterne erano troppo forti e lei troppo debole per farvi resistenza, per combatterle; forse, in fondo, nemmeno voleva. Era conveniente, ogni tanto, non essere sufficientemente presenti a sé stessi così da non dover giustificare i propri comportamenti a chi si faceva spettatore di un glitch improvviso, di una brusca virata oltre i margini di un determinato personaggio vestito fino a quel momento.
    Da dentro, immaginava la sua fronte come un immenso schermo dal vetro oscurato, impenetrabile dall’esterno. E da lì, comoda tra pieghe di materia gelatinosa e ricettacoli elettrici, osservava. Jericho, il mondo, sé stessa. Sorrideva con amarezza, davanti alla facilità d’espressione e alla leggerezza che, senza l’aiuto dell’erba, non riusciva più ad abitare con altrettanta semplicità. Non provava rabbia, tuttavia, né invidia: era semplicemente bello stare ed essere così, svuotata e cava e sottile. Sapere di poter volare via in qualsiasi momento, grazie ad un soffio di vento e ad una finestra aperta, spalancata sull’orizzonte imbrunito. Nei sotterranei, tuttavia, non c’erano finestre, solo ombre e muri.

    Dimentica, la sua attenzione era ancora tutta rivolta al vassoio di biscotti intercettato poc’anzi e davanti cui s’era installata come un fedele sull’altare del santo preferito. Ne aveva pinzato un primo, tra pollice e indice, a cui era seguito un secondo e un terzo, ma non li aveva mangiati, no. Non ancora, almeno. Come preda di un’esperimento di cui era mente e artefice, se li rigirò tra le dita prima di spezzarli in due, tre, quattro, cinque pezzetti più piccoli. - Non è assolutamente divino, questo rumore? - Aveva (ri)scoperto la croccantezza e quanto quel suono scricchiolante le piacesse. Così ne accostava i frammenti all’orecchio e tratteneva il respiro poco prima che il rumore fragrante della doppia cottura le strappasse risolini entusiasti e puerili. Ora, il ripiano legnoso, oltre che cosparso di una pozzanghera di briciole, era occupato da tutti quei ritagli biscottati, perfettamente allineati in una retta un po’ sbilenca. Ritagli che era perfettamente sicura avrebbe presto spedito ai succhi gastrici, così come aveva preannunciato all’amico.

    Che effetto fa? Beh, è strano, vedersi così.
    Fare il tiro al piattello con stelle di un cielo troppo lontano, pescando proiettili croccanti dal vassoio dei biscotti, con le dita troncate sul più bello dall’arrivo precoce di una consapevolezza tagliente come coltelli a serramanico. Beh, quella consapevolezza ce l’ho io, almeno. Lei no, lei sogna, cammina in un universo di fumo e la realtà non la sfiora. Da quassù, i suoi occhi sembrano sorseggiare inchiostro dal reticolo di vene che le si annida sulle palpebre; tira fuori la lingua, mi fa la linguaccia, e la punta è macchiata di viola. E’ una prospettiva inclinata in maniera troppo sghemba per far finta di non vedere ogni cosa attraverso la membrana sottile di un cuore asmatico e quando ti manca il fiato e ti sembra di soffocare forse è solo questione di incidere la suppurazione col bisturi dopo essersi dimenticati di infilarsi i guanti sterili. Suona bene, anche se non so fino in fondi cosa voglia dire. Cecil inorridirebbe a sentirmi blaterale di cose che non capisco; in effetti non potrei mai diventare una medimaga anche se il linguaggio medico mi affascina, mi appare come una ragnatela di parole appartenenti ad una lingua inventata, dunque meno dolorosa.

    Sono contenta, comunque, che stia vivendo questo momento insieme a Lui. Sono contenta nonostante tutto, sì, perché entrambe le versioni di noi custodiscono quell’unica versione di Jericho come un bene prezioso, un frammento da portare al collo, sotto un doppio strato di vestiti, nascosto al mondo, ma vicinissimo al cuore. Non mi pesa affatto rimanere confinata quassù ancora per un po’. Anzi, è quasi bello. I pensieri pesano meno e così certi organi traditori e mentre i polmoni dell’altra Darla sono nuvole che vanno in fumo cerco in ogni dove una sola cosa: il colore indaco. So essere l’unica cosa che lei sopporti le venga accostato, semplicemente trovando il blu troppo bello negli oceani per essere sprecato con la definizione di uno stato d’animo.


    Richiamata dalla voce dell’altro, Darlene si accorse improvvisamente di come il suono dei biscotti spezzati non le piacesse poi così tanto, se messo a confronto con la voce di Jericho intenta a pronunciare il suo nome. I contorni del ragazzo si erano amplificati tanto quanto lo erano i suoi, ma distinse chiaramente quelle due sillabe rotolargli già dalla punta della lingua con un’intensità leggermente differente. Non se n’era mai accorta prima di allora o, semplicemente, non ci aveva fatto caso? Era, ancora una volta, colpa dell’erba?
    Una risatina nervosa le ruzzolò oltre le labbra socchiuse e, senza pronunciare altro, prese a sventolare la mano sinistra per ricambiare il saluto totalmente randomico che l’amico le aveva rivolto.
    Jericho parlava di denti, ma lei, tra i tenti focus del suo cervello, ancora pensava ai calzini. O meglio, all’unico calzino che le era rimasto e che, dispiaciuta per lui e per l’improvviso abbandono del suo gemello, decise di liberare in via definitiva. La pianta del piede, ora nuda e ancora parzialmente intorpidita dal calore della stoffa, assorbì il gelo del pavimento procurandole tutta una serie di brividi lungo la spina dorsale. Abbassò lo sguardo. Tutte e dieci le dite sostavano, ora, allineate e infreddolite, mosse ad intermittenza come le tante zampine di un millepiedi.
    Darla aggrottò la fronte, rimuginando e accodandosi alle domande del Rosenbaum senza una logica apparente; - Maaa…se provassi a muovere avanti e indietro il mignolino come si fa con le linguette delle lattine, pensi sarei capace di staccarlo? -
    E così, per nulla turbata da quel quesito vagamente macabro, acciuffò un frammento biscottato e prese a masticarlo con nonchalance, senza distogliere lo sguardo dal pavimento. L’ennesimo risolino le perforò la gola e, per quanto distratto, andò a sommarsi alla fiera dell’insensatezza messa in piedi in quella cucina.
    - Beh…se iniziasse a prendermi a padellate, la ringrazierei. Mi accorcia e mi fa diventare un elfo domestico! Yuppi! -

    A quel punto, quando risollevò lo sguardo, Jericho non era più visibile da nessuna parte. Le sopracciglia fantasma sfiorarono le solite vette annebbiate, ma non ebbe nemmeno il tempo di esprimere la sua fumosa perplessità che..eccolo riapparire! Vicino, fin troppo vicino, e sottosopra. Per un attimo, la foschia che teneva sotto scacco la mente di Darlene, parve dissiparsi, facendola ritornare lucida per una frazione di tempo sufficiente per sentirsi investita e assolutamente sopraffatta da quel cambio di prospettiva. No no no, sciò, vai via.
    Fu lei, tuttavia, a prendere l’iniziativa. Ladra dell’ennesimo biscotto lo lasciò lì, capovolto e lesso, allontanandosi verso l’angolo opposto della cucina; con uno scatto un po’ maldestro, si issò su uno dei ripiani lindi e lucidi, gambe a penzoloni e dondolanti. Contava sul fatto che fossero entrambi troppo fatti per dare peso ad un gesto assolutamente innaturale, anche per le versione sobrie di loro stessi, ma quell’improvviso cambio di vedute la mise profondamente a disagio. Non era più la Darla su di giri e nemmeno la Darla rinchiusa da qualche parte nella sua testa; era tornata la bambina impaurita ma sufficientemente sprovveduta da infischiarsene delle conseguenze. Semplicemente, le attendeva. Attendeva e, nel silenzio, sgranocchiava il suo biscotto.
     
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    Nel cranio di Jericho, matrioska scheggiata, esisteva un universo parallelo. Più piccolo, fedelmente riprodotto, permetteva al giovane weirdo di spiarvi in qualità di spettatore ma non di terza persona narrante. Con bocca muta ma occhi onniscenti, riusciva a scorgersi malgrado la sua minuscola copia fosse ficcata sotto al tavolo. Era lì che gli universi si diversificavano. Nello spazio e nel tempo. Piccolo come un soldatino di stagno o un giocatore di biliardino, affrontava il tragitto da una panca all'altra come il viaggio di Ulissa. Ma cosa mai poteva fare un militare arrugginito? Figurarsi un calciatore senza braccia, buono solo a dondolare avanti e indietro. Avanti e indietro. Gli parve di dover le acque torbide in un bicchiere avvelenato dal calcare. Gli parve di procedere alla cieca nella fitta nebbia acre di uno degli sbuffi esalati nella sua camera. No, quella cortina opaca non apparteneva a un tiro dei suoi ma a uno di quelli incamerati da Darla. Procedeva nell'esalazione inesperta di Darla, con le lacrime che colavano quattro a quattro e i chilometri che si accatastavano come mine lungo la sua via. Inizialmente spaventato e con mezzo respiro di scorta, si accorse che non stava fendendo una sua boccata di fumo perché... era bello. Un percorso nebuloso, certo, ma rassicurante e nostalgico. Dolce quanto basta, invitante. Lo sforzo titanico che credeva di dover profondere per uscire allo scoperto venne presto sostituito da una spinta leggera; brezza estiva. L'incubo di vie lastricate da mete assenti si dissolse completamente nell'istante in cui incontrò le lunghiiiissime gambe della Earnshaw. Allora, il tavolo non ebbe più l'aspetto di un tunnel senza fine né quello del palato scheggiato di un alligatore. Il tavolo assunse le tinte, le morbidezze e le storture del fortino che i due erano soliti costruire durante il loro Primo Anno a Hogwarts. Appuntamento fisso, immancabile, li aveva visti progettisti e poi costruttori. Creativi senza bisogno dell'aiuto da parte dell'erba sativa. Non era un vero e proprio nascondiglio: chiunque passasse per la Sala Comune sapeva che lì si rintanavano i due strambi. La fortuna d'essere in Tassorosso garantiva loro la tranquillità del rituale, sebbene qualcuno avesse tentato di accedere a quel club esclusivo. Fra cuscini, coperte e poltrone, avevano gettato le basi di un legame che avrebbe soltanto potuto rinforzarsi. Un nodo stretto e bagnato che nessuno avrebbe osato mai tentare di sciogliere. Si sarebbe soltanto reso ridicolo.

    - Lascia stare i tuoi mignolini, non voglio vederli galleggiare nella zuppa di doma... ! - finalmente fuori, esposto alla luce di un sole mattutino che esisteva solo grazie alla presenza di Darlene, il freak inciampò sulle sue stesse parole scivolose e strascicate. Vi ruzzolò sopra, cadde e si interruppe strabuzzando gli occhi arrossati. Riuscì a captare la coda della fuga da parte della ragazza che, come una ninfetta ubriaca, prese le distanze e si rese protagonista dell'ennesimo quadro preraffaellita. Com'è che si verificava quell'incantesimo lì? Era unico privilegio delle sclere di Rosenbaum? Rimase lungamente a fissarla mentre si poneva quesiti. Non la rimirava come un turista al museo ma come un abitante della città in cui il museo sorgeva. Un frequentatore assiduo.

    Lì, nello scaffale, scintilli solo tu. Intorno a te è buio, una grotta e ho paura che ti risucchi all'improvviso. Che tu ci sparisca dentro con uno dei tuoi urli sottili e insieme penetranti a lasciare l'orma di un ricordo orrendo. Sei così vicina che potrei tirarti le caviglie, tuttavia, mi manchi. Il fumo crea cordoni che ci tengono nello stesso cappio ma lo sento che è diverso. Forse, l'erba non mi intontisce ma mi rende più ricettivo. Ha senso, secondo te? Sono un po' scemo, sì, ma lo sento da qualche parte fra le sopracciglia. Lo sento nel punto in cui sono io a essere buio. Perché, forse te l'ho detto, mi percepisco sempre incompleto. A volte, come se mi mancasse un semplice calzino e, a volte, come se mi mancasse un arto o, addirittura, un organo vitale. Tu hai sempre saputo come dar sollievo a quei vuoti, tu li accetti. Adesso li guardi dal tuo trespolo e ne valuti l'insieme. Scorgi ciò che c'è intorno e, magari, non ti piace quel che c'è. Sei ancora di corsa? Vai a ritroso? Me ne sono accorto, eh. Senza di te, la Sala Grande è desolante.

    - Scappi da me? - Lazo non sapeva di aver posto un interrogativo gravoso, o meglio, non ne era consapevole sullo stesso livello della sua migliore amica. Gliel'aveva chiesto teneramente, con le orecchie ancora formicolanti dei risolini di lei. Con lentezza quasi solenne, abbandonò la sua tana una volta per tutte e si sedette al rovescio, con le spalle al tavolo. Una volta stiracchiatosi, sistemò la vestaglia ridicola con un gesto così accurato da far sembrare l'indumento quasi meritevole d'essere sfoggiato. Sfumature verdastre gli attraversavano i ricci spampinati come quando le rane saltano nello stagno, ciò mentre sceglieva quale frammento di biscotto fosse adatto a lui. Ve n'era una fila dal sapore unico ma la selezione pareva fondamentale. Prese quello totalmente ridotto a un perimetro di angoli e morse il punto su cui immaginò la pressione delle dita della concasata. Masticò, deglutì. In silenzio, offrì un sorriso pigro e insieme di valore che gli fece prudere le labbra. - Cos'è che ti fa paura? - eppure non sembrava che Darla avesse paura. Oppure sì? Non era un gioco? Non si era divertita a evitare che il coetaneo la acciuffasse?

    Il senso di vuoto che spesso accompagnava Lazy-Boy, si fece più presente ma anestetizzato dalle circostanze. A malapena si accorse che, all'altezza del suo stomaco, la Metamorfomagia aveva scavato un foro perfettamente circolare. Era simile a quelli che si aprivano nelle pance di personaggi dei fumetti ma, su un essere umano, faceva un effetto differente. Comunque, lo stramboide non si scompose granché ma abbassò le pupille dilatate sulla rientranza in parte celata dall'abbigliamento. Restò a esaminarla come fosse oggetto mediamente interessante di una lezione X. - Oh! Questa mi sa che è fame. - scrollò le spalle e l'ennesimo pezzo di biscotto gli scomparve tra le fauci.
     
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    Non so affatto nuotare oltre questa mia espressione ebete.
    Dentro sì, dentro è ancora tutto uguale, ma fuori…Mi è giusto venuto in mente un sogno che vorrei tanto raccontarti - non so, ho la sensazione che potrebbe rassicurarti, che potrebbe rassicurare anche me -, ma le sequenze mi si ingarbugliano e le parole diventano inutili.

    C’era questa sottospecie di coleottero cobalto che ti si posava sul naso quando sorridevi; io lo afferravo al volo e gli davo una lezione perché in fondo ero gelosa. Pensa te che cretinata. Gelosa di un coleottero! Ma comunque, ho lasciato che il vuoto mi inghiottisse le parole perché in fondo sapevo tu le avresti sentite ugualmente. Ad un certo punto, hai lasciato che la pelle ti scivolasse via e quando ti sono corsa dietro per riportartela, hai riso e quasi sei caduto, ma io ti ho preso al volo.
    Non ricordo poi cos’è successo: lo scenario è cambiato. Giocavamo a scacchi magici, forse, spiluccando lucciole. Il cemento sotto di noi, improvvisamente, si è sbriciolato senza che lo realizzassimo per tempo, troppo presi dalla partita, ma tu non mi hai lasciata cadere di sotto. Mi hai presa al volo.

    Capisci quello che ti voglio dire?
    Ora è difficile, ma io non ho dimenticato. Devi solo darmi un po’ di tempo: ho alcune cose da re-imparare, alcune cose che forse non sarò più in grado di fare. Quando corriamo, però, io e te, sapremo sempre come afferrarci al volo, vero?


    Lo sguardo di Darlene s’era impigliato sullo stagno artificiale che era diventata la zazzera del Rosenbaum, dimora di ninfee invisibili e pensieri che non sarebbe stata capace di afferrare nemmeno volendo. Malgrado ciò, ci si fissò con smania feroce: senza proferire parola, covava nel silenzio la volontà di trapiantare in lui ciò che non sarebbe stata capace di svelargli nemmeno se fosse stata sobria. Soprattutto, se fosse stata sobria.
    Jericho, presenza rassicurante del sottobosco, assisteva alla lotta interiore dell’amica senza esserne pienamente cosciente e Darla fu grata di questa foschia che li scindeva. Se ne sarebbe risentita in qualsiasi altra occasione, ma non ora, non lì. Fosse stata capace di rifletterci in maniera più certosina, si sarebbe senza dubbio resa conto di come fosse la prima volta ch’era in grado di rimuginare sulla questione senza capitolare oltre il baratro umido delle sue cornee.

    - Scappo? Oh, sì! Sì, certo che scappo! Da te, da me, da tuuutti - l’ennesima, incontrollata, risatina serica ruzzolò giù dalla presa dai denti, sconquassando il corpo della diciassettenne come preda di brividi di freddo. Bambina dispettosa, muoveva le gambe avanti e indietro e sfidava l’amico ad una gara di sguardi allucinati, non pianamente cosciente della strada impervia appena imboccata, disseminata di una verità che s’era ripromessa di custodire dentro di sé alla stregua di una potente reliquia oscura. Per quanto pericoloso, il manuale d’istruzioni era andato perduto lungo il tragitto e il gioco intavolato sostava sotto l’egida di una totale anarchia cerebrale.
    Quando Jericho nominò la paura, tuttavia, la mente di Darlene capitombolò su se stessa, aggrovigliandosi dietro una commozione di opposti. Sbatté le palpebre una, due, tre volte. L’espressione del suo viso non s’era davvero rabbuiata; mantenne sempre quel velo di alienata sembianza ma, al contempo, pareva essersi fatta ospite di un panico nascente, un’impercettibile tristezza trascinata da uno sciame di vespe destinato a transitare sopra i suoi connotati solamente per pochi secondi, ma sufficienti per lasciare punture visibili ovunque riuscissero a trovare carne morbida sopra cui affondare i loro pungiglioni.
    Le braccia le ricaddero in grembo con un tonfo sorto, affidando al pavimento una pioggia di briciole; anche lo sguardo ne seguì la traiettoria, così la testa, le spalle. La perfetta rappresentazione di un cartellone affisso male e destinato a spellarsi lentamente dal muro per l’incuria dimostratagli. - Ho paura…ho paura che se ti dicessi certe cose, finiresti per odiarmi. E quindi…non provare a chiedere, hai capito? Puoi solo mangiare un altro biscotto -

    L’unghia dell’indice, mezza sbeccata ed irregolare, sfregava ad intermittenza sopra il lato morsicato dell’impasto croccante, aggiungendo briciole al cimitero fragrante sotto di sé. Deviando totalmente, rimuginò sulla loro posizione attuale, al casino che si sarebbero senza dubbio lasciati dietro una volta che si fossero decisi di liberare la cucine dalle grinfie della loro insensatezza. Si chiese quali fossero le probabilità di essere brutalmente ammazzati da un elfo domestico - più ostico rispetto alla certezza incarnata dalla furia mortifera di Chef Dreyfus - e l’eventualità di farsi protagonista di una simile sequenza tragicomica incendiò in lei un’isteria di riso. Non le solite risatine a mezza bocca, ma una risata a gola spalancata, da mal di pancia e frattura mascelle. La vista le si appannò a tal punto che, ora, la figura di Jericho tremolava come una pozzanghera desaturata. Doveva assolutamente renderlo partecipe di questa stronzata da cosmicomiche.
    Fece per raggiungerlo, dunque, ormai prigioniera di una nuova parentesi d’incoerenza ma, instabile, le ci volle qualche oscillazione di troppo per rinsaldarsi di nuovo sulle proprie gambe. Saltellò tutta sbilenca su un piede solo e, quando i contorno di Jericho si stabilizzarono, lo fu sufficientemente anche lei per accorgersi della sparizione. Geko, in effetti, non appariva in alcun modo diverso ma, all’altezza dello stomaco, Darla riusciva a notare una presenza estranea - o meglio, un’assenza -, simile all’oblò buio di una lavatrice e altrettanto vorace contro la maglietta leggera indossata dall’amico. Non vedendolo preoccupato, evitò di allarmarsi a propria volta - in quello stato, era in dubbio ne sarebbe stata comunque in grado - e, ormai abbastanza vicina da toccarlo, allungò un braccio e un dito in direzione dello stomaco del ragazzo, come un occhio di bue umano. Non sentiva alcun rumore, ma dentro la sua testa s’innalzava un ronzio persistente simile al risucchio di un buco nero. Se doveva dare una forma alla voragine che, da un paio di mesi, si cibava delle sue viscere e della sua inadeguatezza, era quasi certa avrebbe finito col rappresentarla alla stessa identica maniera. - Anche io. Uguale -
    Chissà se Jericho avrebbe capito, che non era alla fame che si stava riferendo.
     
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    Sono le sette passate e non è ancora calata la sera. Mi ci devo abituare.
    Di solito non mi interessa se la Sala Grande è incasinata o meno: a prescindere dal mio umore, ci bado poco e niente. Oggi, però, sento una membrana di insofferenza che mi vibra nel petto. Tipo un diapason con il terremoto o, molto peggio, un tappeto elastico dalle dimensioni ridicole sul quale tutti quelli intorno a me saltano furiosamente. Come pazzi che vogliono raggiungere lo stencil lontano della Luna.

    - Darlita? - è arrivato Papi. Quand'è arrivato? Non me ne sono accorto, troppo concentrato sui rimbalzi sgradevoli nel mio sterno. Alzo lo sguardo dal piatto intoccato e scruto Pedro con aria stralunata. Se mi osserva bene di rimando, noterà come mi stia impegnando a sfilarmi dall'alienazione ed è così che le mie iridi tornano in stato di eclissi totale. Se ne sta lì con l'interrogativo appeso come una medaglietta al collo di un golden retriever. L'espressione dolce e un po' infantile che gli smussa i tratti da uomo. Ci metto un po' a recuperare la sua domanda, la pesco dal fondo di una piscina ma non si tratta né di occhialetti né del pezzo superiore di un bikini: mi sta chiedendo di Darla e io non so cosa rispondere. Impugno la forchetta e torno a tormentare lo sformato di spinaci senza assaggiarlo. Strano, eh? Non è nel mio stile. Ragazzaccio maleducato, giocherello con il cibo mentre abbozzo un'occhiata all'ingresso. Non so quante ne abbia già scoccate senza rendermene conto ma di Darlita non c'è traccia. Succede così da un po' e, per quanto io mi trattenga nel lasciarle i suoi spazi, comincio a essere preoccupato. La curiosità del fratellastro di Olivia non fa che trascinarmi sul "luogo del delitto". Mi induce a rimuginarci e a rendermi conto di quanto, invece, la Sala Grande sia silenziosa in assenza della Earnshaw.

    - Non ne ho idea. - non l'ho vista nemmeno a colazione. A pranzo ho mangiato con Olivia nei pressi del Lago Nero ma qualcosa mi suggerisce che non l'avrei beccata nemmeno in quel caso. Papi assume un cipiglio pensoso, rovesciando il berretto per la visiera e iniziando il suo pasto in silenzio. Dopo poco, mi aggancia tramite uno dei suoi discorsi euforici e un po' cubani, quasi portasse con sé le stramberie di un'assenza fottutamente presente. Un'assenza amara vicino alla quale Pedro gesticola e mi obbliga a sorridere appena. Gli frego il cappello.

    ***


    Trilly Campanellino rise di nuovo, mistificando una verità atroce nel suono scrosciante di perle che cadono su un pavimento in marmo. Ecco come venne percepita la risata dalle orecchie di Jericho: perle che sgusciano dal filo in ordine apparente per poi spargersi nell'aria e tintinnare al suolo in cento ritmi diversi. Gli venne spontaneo posare gli occhi sulle clavicole della sua migliore amica, neanche avesse davvero subito il furto di una collana. In fondo, aveva ragione lei: Rosenbaum stesso stava fuggendo dall'immagine concreta del reale, ammantandosi di fumi dolciastri. Condividere la canna equivaleva a cavalcarla come fosse una scopa biposto e spiccare il volo. Nessuno, però, li aveva avvertiti della possibilità che il mezzo di trasporto si sdoppiasse e li allontanassi. Li spingesse a eseguire coreografie differenti.

    Le labbra pigmentate di Geko si schiusero conferendogli un'aria ancor meno intelligente. La sua bocca alla stregua di un divano in velluto - spolverato di briciole - che viene divaricato in cerca di qualche zellino. Ah, quante belle similitudini e metafore gli venivano in mente: quante? Tante! Tendenzialmente, l'erba sativa aveva effetti positivi e stimolava la creatività, cosa che i due avrebbero riscontrato pienamente se non fossero stati storditi dagli effluvi. Edulcorati, nel disagio dell'Adolescenza e nel male di vivere aprioristico che contraddistingueva l'età. Perciò, riflettendo sulle parole di Darlene, Lazarus se le figurò come molto più poetiche e filosofiche di quanto non esprimessero. Quasi ritenne opportuno segnarsele su un tovagliolo ma non aveva inchiostro né grafite, dunque continuò a fissare la compagna di classe con spregiudicata ammirazione. Ciò che la pianta li aveva indotti a sperimentare non era la calma che segue la tempesta ma, molto più probabilmente, quella che la precede. Intontiti da un senso di pace fittizio, vi sguazzavano come alle terme e tutto sembrava affrontabile. Sopportabile, in un certo senso.

    Non essendo stecchiti dall'assunzione della tipologia indica, mettevano a soqquadro gli equilibri della cucina riarredando, di conseguenza, i rispettivi interni. La paura era un concetto artistico che li riguardava e li innalzava lungo un trip semi-veritiero, covando nel substrato quel che davvero rappresentava per entrambi. Odio. Darling aveva menzionato l'odio e lo aveva associato ai sentimenti che Richo avrebbe potuto provare nei suoi confronti. Lui. Lui che odiava lei. A briglia sciolta, il Tassorosso caricò il colpo di uno sghignazzo sfiatato. Sgomento e teatrale al punto che ritenne necessario lanciare un biscotto in un gesto sbigottito. A prescindere dall'alterazione, il giovane weirdo riuscì comunque a rispettare l'ordine impartitogli ma non senza puntualizzare: - Non potrei mmmmmai odiarti. Maimaimaimaimaimai. - un "mai" per ogni anno di scuola insieme. Eppure, povero stolto, aveva affidato il ragionamento al cuore senza considerare che . Sarebbe potuto arrivare a odiarla e anche con ferocia così come l'esatto contrario. Magari, stava già accadendo. - Magari sei tu che mi odi. Mi dai da mangiare i tuoi calzini! -

    Con il suo oblò affacciato sul niente, Lazzaro incrociò le gambe sulla panca. La sua idea iniziale era quella di afferrare un tegamino molto bello e lucente per metterselo in testa però, nel frattempo, l'aveva raggiunto la concasata. Aveva notato il foro, indicandolo senza raccapriccio e invitando, così, il proprietario a rimirarlo ancora. - Sono sempre stato un tipo... aperto, lo sai. - non evitava freddure simili da sobrio, figurarsi in un simile frangente. Comunque, non rise di quel guizzo di genialità, anzi: grattò i contorni curvilinei del buco nello stomaco e si esibì in un breve cenno del capo frondoso: - Puoi toccare, eh! - e non c'era malizia in quella frase ma calore. Fiducia, predisposizione, condivisione. Tu puoi. Allora, Darla rimarcò l'uguaglianza dei loro vuoti e il freak annuì lentamente. Non era alla fame che si stava riferendo. Piano, mostrando alla coetanea un ampio palmo in segno di muta richiesta, lo avrebbe posato più o meno alla stessa altezza del varco che lo caratterizzava. Se avesse ottenuto il consenso, la sua mano si sarebbe premuta sulla scritta che abbelliva la t-shirt di Darla e, magicamente, la finestra nel proprio ventre si sarebbe richiusa.

    Black hole sun
    Won't you come
    And wash away the rain?
     
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    A Darlene Earnshaw non sarebbe potuto piacere Jericho Rosenbaum più di così.
    In cuor suo sapeva di non averne alcun diritto ma, sotto l’ammaliante egida della sativa, per la prima volta sentiva di poter respirare. Un’occasione, forse l’ultima, io cui avrebbe potuto viversi la naturalezza di quel sentimento senza sentirsi difettosa o meritevole dell’odio e della delusione che, era certa, prima o poi i suoi due migliori amici le avrebbero riversato addosso nel momento in cui il tradimento subito sarebbe stato scoperchiato.
    A Darla, però, non importava. In quel momento, non poteva importarle di meno.
    L’erba non aveva del tutto avuto il potere di annientare i timori e le rimostranze sopra cui si era arrovellata per tutte quelle settimane, ma le aveva senza dubbio edulcorate. Era stato come ritinteggiare a nuovo una stanza: svuotata dei mobili, impacchettata la personalità di chi l’abitava dentro scatole provvisorie, si godeva lo stordimento della transizione. Uno o due giorni di lento riassestamento dove gli spazi, ancora familiari ma non troppo, richiamavano a sé tutto ciò che gli era stato momentaneamente strappato. L’unica eccezione era che lei non aveva uno o due giorni, forse a malapena una o due ore.

    Di tutto questo, non era pienamente cosciente. O meglio, percepiva qualcosa di estraneo ribollirle dentro - lì, da qualche parte, mischiato alle viscere - ma, preda di un sogno ad occhi spalancati, non sarebbe probabilmente stata in grado di farci i conti con razionalità. Anzi, era quasi bello, agire senza capire. Senza frustrazione, senza rabbia, senza tristezza, senza essere nauseata dalla sua stessa incapacità di autocontrollo.
    Guardava Jericho e pensava semplicemente a quanto le piacesse e quanto le sembrasse normale, viversi quel sentimento senza ripercussioni.
    Per esempio, quasi ci credeva. Quasi credeva al fatto che maimaimaimaimaimai avrebbe potuto odiarla e sorrideva come una bambina a cui, mignolini allacciati, era stata fatta la promessa di rimanere insieme per sempre.
    - Io, invece…sì. Credo di odiarti almeno un pochino - ammise, con spontaneità e naturalezza, avvicinando pollice e indice per quantificare il “pochino” di odio a cui si stava riferendo. L’ammissione era arrivata così a bruciapelo, trascinata dalla sua solita vocina da ninfetta, da assomigliare più ad una presa in giro che ad un’allarmante verità. Odio e amore, in fondo, viaggiavano su due binari vicinissimi e spesso interscambiabili. Darla non lo realizzava, ancora, ma aveva appena confessato a Jericho molto più di quanto aveva e avrebbe fatto in futuro.

    Poi, con la stessa naturalezza, passò oltre. Faceva e disfava a velocità impressionante e il cervello non le dava tregua.
    - Se affondo la mano…dici che ritrovo i miei calzini? O li hai già digeriti?? - corrugò la faccia in un’espressione di ammonimento ma sotto sotto stava sorridendo. Senza troppe cerimonie, occupò il posto sulla panca accanto al compagno e, prendendo alla lettera l’invito di quest’intimo, annullò la distanza precedentemente abbozzata dall’intenzione di toccarlo. Tutta la sua attenzione era incanalata al tessuto stropicciato della maglietta di lui, dove le sue dita tastavano il vuoto e si trattenevano dall’esercitare eccessiva pressione per paura d’inabissarsi troppo in profondità. Con la coda dell’occhio, tuttavia, notò la richiesta silenziosa dell’amico e, restituendogli un’espressione perplessa, annuì comunque. Come un ponte, quando le dita maschili affondarono nel suo stomaco fatto di carne e sporgenze, la differenza di consistenze prese lentamente ad annullarsi. Darlene, inizialmente, si domandò se non riuscisse a percepire le proprie morbidezze tramite Jericho, ma la verità era un’altra: era lo stomaco del metamorfomago che, lentamente, si stava ricompattando sotto la sua presa.

    Anche lei, per un attimo, ebbe la sensazione che il suo vuoto si stesse pian piano rinsaldando. Avere Jericho Rosenbaum così vicino, lasciarsi risucchiare da quei buchi neri aggreganti, inspiegabilmente, non le faceva più paura. Lo guardava con espressione inebetita, le labbra leggermente socchiuse. Dentro di lei, irruente, iniziarono a smussarsi i contorni di una promessa: solo per questa volta, e poi basta.
    Abbassò gli occhi sulle sue labbra. Era un'idea così assurda? O era assurdo il fatto che le sembrasse così giusta? Avrebbe potuto essere veloce e indolore e Dio solo sapeva quanto voleva poter avere la leggerezza di fregarsene e baciarlo così come desiderava. Ma pensò ad Olivia, pensò a lui, pensò a sé stessa e, semplicemente, la promessa si disgregò in centinaia di migliaia di frammenti.
    La mano che ancora sostava contro gli organi del ragazzo, s’aggrappò improvvisamente sopra le dita che avevano fatto da specchio alle proprie, stringendo appena con l’intenzione di sopprimere sopprimere sopprimere. L’effetto…stava già finendo?
    Lo sguardo d’ossidiana, quindi, si sparpagliò sulle giunture del concasato che aveva fatto prigioniere; ci si fissò fino a trapassarle e alla fine, impulsivamente, cedette. Non nella misura in cui avrebbe voluto, ma quando portò la mano del ragazzo al proprio viso e vi depose un bacio tra le nocche - impacciato, anche un po’ infantile - non seppe più cosa pensare.
    So che tenterai di interpretare questo mio assurdo baciamano - un gesto di scusa, un gesto di affetto, una provocazione gratuita come potrebbe essere quella di una persona ben diversa da me? Un addio? Una dichiarazione di resa? Forse darai la colpa all’erba. Anzi, spero tu lo faccia.
    Non puoi avercela con qualcuno che ti bacia come se fossi una cosa preziosa, immagino.


    Quando riabbassò la mano di Jericho, prima di lasciarla andare, l’espressione della Earnshaw s’era accartocciata in una maschera di confusione, come se non fosse pienamente cosciente di quanto era appena successo e in che misura avesse preso parte al tutto. Semplicemente, fissava il punto sopra cui le proprie labbra s’erano posate e, inspirando profondamente, emise un sonoro sbuffo. Come se fosse stato tutto un grande scherzo.
    - Beh…pulisci tu, qui? Io me ne vado a dormire, ciao ciao -
    Così come aveva fatto la prima volta, scivolò via dal baricentro dell’altro con la stessa velocità, ma non la medesima scioltezza. Aveva già oltrepassato la soglia della cucina a suon di saltelli, quando un’improvviso senso di nausea le fece visita dal fondo della gola.
    Niente che una bella dormita non potesse risanare, no? O era esattamente il contrario?

    Dry your eyes, it's not so bad at all…
    Well, it's all made up, it's imaginary
    There's no love in February
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    Seppur gradualmente, i valori chimici dell'organismo di Jericho stavano tornando normali. Il suo corpo stava assorbendo la miracolosa estraneità dell'erba e ciò lo avrebbe presto depresso ma non subito. Non ancora. Avvolto dagli ultimi anelli di fumo come un capo tribù, ne succhiava il grigiore ineffabile con parsimonia affinché non restasse a secco. Calumet della pace. Beh, non che lui fosse completamente consapevole della parsimonia tramite cui gli ultimi fuochi venivano smaltiti ma una sorta di incoscia gratitudine lo incendiò. Riconoscenza che si spandeva a macchia d'olio (tanto per restare in tema con le Cucine) e ungeva, in primo luogo, colei con cui stava condividendo quell'avventura a tratti nebulosa. Su Hogwarts, una notte stranamente tersa faceva la ruota mentre l'unico spicchio di preziosa nebbia se lo spartivano i due Tassorosso fuggitivi. Nel loro nascondiglio poco intelligente, se ne stavano vicini in quella porzione opaca di Universo.

    Darla!
    Darla, Darla, bo-bar-la!
    Bo-na-na fanna, fo-far-la!
    Fee-fi-mo-ar-la!
    Darla!


    Uno degli ultimi doni che la sativa volle fare a Lazzaro, fu sintonizzarlo su un ricordo legato a sua nonna Lucille. C'era questa canzone, The Name Game: grazie a un labirinto cangiante di lettere, la donna giocava con i nomi finché aveva fiato. Raccontava ai nipoti che la aiutava molto mentre si esercitava prima di uno spettacolo ed era così divertente, spensierata, coinvolgente... Richo aveva avuto qualche difficoltà a impararne il meccanismo ma, non appena gli tornò a far visita il ritmo, dissezionare il nome di Darla fu facile e piacevole. Una brezza dolce e rimbalzante, a misura della Earnshaw. Un loop entusiasta che condizionava le labbra di Richo in sorrisi un po' sconnessi. La melodia continuò a riecheggiare nel suo cranio anche quando lei ammise che, forse, lo odiava un pochino. Non era segno che le stesse prestando poca attenzione, anzi: in qualche modo stava apertamente accettando di essere odiato. - Per me è okay. - disse, addirittura, per tranquillizzarla. Per sottolineare l'enormità della sua disposizione nei confronti di una fra le persone più importanti della sua breve vita. La si poteva definire devozione, ecco. Avrebbe voluto dirle che, odio o no, lui non si sarebbe mai sognato di abbandonarla. Era troppo piccolo e sciocco per rendersi conto di quanto quella convinzione sarebbe rimasta vera, anche nel caso in cui lei avesse deciso di allontanarlo. Troppo piccolo, sciocco, fatto e inconsapevole. Inadatto ad accettare la legittimità di un distacco.

    Poi, il sorriso che le sillabe in musica avevano acceso si spense come una fiamma che muore di vecchiaia. Serenamente e senza interventi estranei. Stralunato, il cuore improvvisamente gettato in fondo a un sacco di sottile angoscia e una tristezza senza redini che lo pervase tutt'un tratto. Forse divenne ancor più pallido di come appariva di norma o forse no. Forse era arrossito. Osservava il ponte consolidato dalle braccia di entrambi come se avesse un appuntamento proprio lì, a metà strada. Il suo appuntamento era in ritardo? Qualcuno gli aveva appena comunicato che non si sarebbe presentato nessuno? Che la persona attesa si fosse buttata di sotto? Le sue ciglia sfarfallarono e solleticarono le labbra piene di Darling in contemporanea a quelle trasparenti di lei. Che fosse o meno merito del THC, Lazy Boy non ne aveva idea: riuscì solo a stringere le dita intorno a quelle della sua migliore amica in un guizzo predittivo. Era come se lo avesse presentito e, per tale ragione, si era rivelato pronto a ricambiare l'iniziativa di lei prima che si compisse del tutto. La proverbiale logorrea del freak? Tranciata di netto. Come un fiore pesante di pioggia, Darla inclinò la corolla e si rovesciò sulle nocche del concasato con un bacio timido. Quest'ultimo, tramortito e vivace al contempo, tese le dita per abbozzare una carezza sulla guancia della diciassettenne. Sembrava più uno scarabocchio su una tela mai completamente conosciuta in termini di mutevole consistenza. Una supplica, un cenno di stanchezza contro quella buccia di pesca. Te ne stai andando, non è così? Per sempre o solo fino a domani? Che cos'è appena successo? Mi lasci solo? Ti lascio sola? Mi servirebbe proprio un bicchiere d'acqua, sai, soffoco. Saranno i biscotti? O sei tu?

    La ninfa del grano si sbrogliò da ogni sospensione e, prima ancora che il Metamorfo se ne accorgesse, era già in procinto di uscire da lì. Il giovane weirdo si voltò in uno scatto ma non seppe rispondere nulla se non l'eco poco convinta di un: - Asp... ciao ciao... - l'azione che rinforzava debolmente il saluto con la mano, obbligò Geko a studiarne il dorso: tra indice, medio e anulare sbocciavano delle minuscole bugole in una pacifica alternativa a tutte le malattie esantematiche esistenti. Era rimasto l'unico a infrangere le regole e, per un secondo, sperò quasi d'essere beccato senza capirne il perché. Fissava il passaggio che l'avrebbe ricondotto al corridoio con la sagoma allampanata della compagna di classe a tatuargli le palpebre tramite impronte di colore e luce. Avrebbe dovuto risistemare il casino combinato prima che un Elfo lo beccasse e facesse la spia al vero boia della situazione. Non poteva esimersi, tuttavia, una pesantezza titanica lo schiacciava contro la panca, così decise di stendercisi faccia avanti. Era scomodo ma vi sarebbe rimasto per un po'.

    Ad attenderlo in dormitorio, un vuoto strampalato e il calzino giallo limone, sopra cui Duh dormiva beata.
     
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