It’s not a fashion statement, it’s a deathwish

Dottoressa Rosier

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    Fuori da Azkaban, via subito dentro al San Mungo.
    Libera da una parte, prigioniera dall’altra. Le istituzioni sarebbero sempre state la sua spina nel fianco: non sei mai davvero libera quando hai commesso un crimine, esso ti perseguita, seguendoti per sempre, come un’ombra, come la sagoma di un randagio malnutrito e pulcioso. Tutti sanno chi sei, cos’hai fatto, inventano storie sul tuo conto. Alcune sono vere ma non le accetti, perché in certi casi anche la realtà supera le più ardite fantasie.
    Isabella Selwyn aveva dato di matto. Era saltata dentro un Ardemonio assieme ad Agnes MacNair, l’aveva seguita in capo al mondo con l’intento di ucciderla per averla sottoposta alla Maledizione Imperius, ma non era riuscita a combinare proprio un bel niente. Aveva attaccato un agente della Squadra Speciale Magica che guarda caso era anche il suo ex fidanzato, ferendolo, ed aveva opposto resistenza a due Auror mandati a prenderla. Era finita in manette. Si era consegnata di sua spontanea volontà, probabilmente troppo stanca per perseverare in una protesta che aveva perso ogni attrattiva ed ogni fine. Era rimasta da sola. Lo aveva accettato.

    Pensava di averli retti bene, i diciassette mesi ad Azkaban. Il numero delle visite che aveva ricevuto lo aveva contato sulle dita di una mano, ma aveva fatto in tempo ad abituarsi alla solitudine ancor prima di essere arrestata. Non era cambiato poi molto, solo lo scenario desolante della sua vita si era condito di un costante odore di muffa e del suono cadenzato dell’acqua che gocciolava pigra dalle sbarre della sua cella al pavimento di pietra. Aveva avuto modo di pensare, ma non era ancora sicura di quello che avrebbe fatto. Non era sicura che la rabbia non fosse la risposta giusta al trattamento che aveva subito. Sì, ora arrivava la riabilitazione, glielo aveva detto anche Camden Shafiq quando aveva dato il via libera per farla uscire dal suo tugurio, ma… quell’anno e mezzo di prigione a cosa era servito, se non ad un mero scopo punitivo? Si era chiesta se fosse realmente utile anche prima di provarlo sulla propria pelle, e la risposta era stata dapprima un convinto ed ineluttabile sì, che si era ben presto tramutato in un orripilato no. I carcerati, lasciati a loro stessi nelle celle sudicie della più famosa prigione dei maghi, non facevano altro che covare rabbia. In alcuni casi, ciò li uccideva. Quelli che sopravvivevano, invece, diventavano per lo più distruttivi, degli animali. Era giusto? Certo che no. Eppure, si era chiesta se non fosse necessario. Non tutti erano recuperabili, d’altra parte. Forse non lo era nemmeno lei, anche se loro avevano voluto darle una possibilità. E allora, con quelli, che fare? Lasciarli in libertà era fuori discussione, e quando anche le terapie psichiatriche erano destinate a non dar frutti, non rimaneva poi molto da fare se non rinchiudere l’animale rabbioso in gabbia e gettare la chiave. Era un dilemma a cui probabilmente non avrebbe mai trovato una vera risposta. Se non la possedeva ora, dopo tutto quello che aveva passato, dubitava l’avrebbe mai trovata.

    Sedeva, composta, in sala d’aspetto. Il reparto del San Mungo riservato alla salute mentale era tranquillo, silenzioso. Bianco. Più o meno come se l’era aspettato. Lei, i capelli fulvi sciolti in ampie onde sulle spalle esili, se ne stava immobile, le gambe accavallate e le mani docilmente posate sulle ginocchia. La schiena dritta, l’espressione neutra. Voleva dare l’impressione di essere ancora un essere umano. Giocherellava pigramente con l’orlo della minigonna rosa in tweed, le unghie curate erano laccate di madreperla. Pensava che nessuno che l’avesse guardata ora avrebbe mai potuto pensare che lei era stata ad Azkaban ma, ad un esame meno superficiale, quella possibilità c’era. Bastava semplicemente guardarla negli occhi. Erano, talvolta, ancora spiritati, vaghi; come se colei a cui appartenevano non fosse davvero lì.
    Si riscosse, rapida, quando sentì il rumore di una porta che si apriva. Dall’uscio, Lucretia Rosier fece capolino, nel suo camice candido. La sua migliore amica, la sua terapista. Le era stata assegnata proprio lei, per il percorso di riabilitazione psichiatrica. Avrebbero poi deciso le istituzioni se Isabella Selwyn fosse idonea a vivere nella società. Si chiese cosa ne sarebbe stato di lei se la risposta finale fosse stata no.
    Si alzò in piedi, le mani ancora in grembo.
    - Lulu… dovrò chiamarti Dottoressa Rosier. Che strano. - Disse, lieve, inclinando appena il capo sulla spalla sinistra. Seguì la sua amica dentro la stanza, e si chiuse la porta alle spalle. Si accomodò di fronte a lei. - Tu sai tutto di me. Eppure, non riesco a capire se questo sia un bene o se renda questo percorso di terapia assolutamente impossibile. Perché sono stata assegnata a te? - Le chiese. - Non si tiene più conto dei trascorsi privati dei pazienti? - Le rivolse un sorriso. La considerava una grave mancanza di giudizio, a dire il vero.
     
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