Halving Devices

J.H.

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    DANDELION

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    Caposcuola Tassorosso
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    - Qual è meglio? Questo o questo? -
    - Cara Darlene, mi rincresce davvero dirtelo ma quei due maglioni sono pressoché identici…-
    - Eddai, Jane! Non lo vedi che sono diversissimi? Uno è verde salvia con le margherite, l’altro è verde bosco con i fiori di camomilla! Uffff -
    I due maglioni erano, di fatto, identici e Darlene Earnshaw ci si stava arrovellando da una buona mezz’ora come se da quella scelta ne dipendesse la sua vita. Era chiaramente nervosa e il suo iperfissaggio su dettagli di bassa rilevanza non facevano altro che alimentare tale nervosismo. Jane Seymour, dall’alto della sua cornice, chiaramente non ne poteva più; la sua regale pazienza ed educazione, tuttavia, le permettevano di gestire un’adolescente nel pieno di una crisi senza rimetterci la sanità mentale - o qualsiasi cosa la sola pittura le avesse lasciato.

    Alla fine, dopo averli provati entrambi per la trentacinquesima volta, optò per quello color salvia. Ne infilò l’estremità dentro i jeans chiari a vita alta e, dopo aver bisticciato con i lacci aggrovigliati delle converse marroni, si fermò qualche secondo a rimirare il proprio riflesso nello specchio a figura intera che condivideva con le sue compagne di stanza. Appuntò due forcine ai lati del viso e, inclinando appena il viso per distorcere l’angolazione alla ricerca di qualche difetto, si decretò alla fine sufficientemente soddisfatta e in ordine da lasciare il dormitorio senza ulteriori esaurimenti. Era tutta intenzionata a rientrare nel tardo pomeriggio con un lavoro in tasca e, per questo, non poteva permettersi per nulla al mondo di fare brutta figura.
    Per quanto Jericho l’avesse più e più volte rassicurata sulla natura bonaria di Jo Hicox, il proprietario di Mondomago, Darla non riusciva a tranquillizzarsi all’idea di doversi presentare al suo cospetto, senza un briciolo di esperienza o talento, e comunque sperare potesse esistere una remota possibilità di essere assunta nel suo negozio. Erano almeno due settimane che simulava quell’incontro; con Olivia, con il Rosenbaum e persino Pedro, dopo che più volte aveva tentato di svignarsela, aveva dovuto cedere davanti la disperazione dell’amica e accollarsi il delirio di un ipotetico scambio di battute tra i due.
    Giunto il fatidico weekend, tuttavia, Dente di Leone aveva declinato la proposta dei tre amici di accompagnarla ad Hogsmeade come sostegno morale: sarebbe andata da sola e ne sarebbe uscita vittoriosa.
    A discapito dell’irrequietezza destata dalla novità di quella situazione, Darla era terribilmente esaltata all’idea di trovarsi un lavoretto. Ma, più di tutto, il suo orgoglio si tingeva di tonalità profonde e luminose al pensiero di potersi conquistare qualcosa con il solo ausilio delle proprie forze. Qualcosa che fosse unicamente suo e che, per una volta, l’avrebbe avvicinata alla parte meno spaventosa del mondo adulto da cui tanto rifuggiva ma in cui, in un modo o nell’altro, finiva sempre per inciamparci nel mezzo.

    Paradossalmente, mano a mano che la distanza diminuiva e le foglie aranciate e fragranti scricchiolavano sotto i suoi piedi per ricordarglielo, l’angoscia che per due settimane l’aveva tenuta prigioniera della sua morsa, parve mano a mano sciogliersi al cospetto di un pallido sole autunnale. Amava quel periodo dell’anno; aveva sempre la sensazione che durasse troppo poco, ma la transizione alle sfumature cangianti della stagione esplodevano in quel preciso angolo di mondo prima ancora che l’estate si congedasse definitivamente da una terra nella quale non era sempre ben accetta come avrebbe dovuto. E proprio perché, con l’arrivo di settembre, le strade del villaggio magico tornavano a riempirsi di studenti, quella cartolina incantata si rianimava alla stregua di un vecchio ingranaggio rimesso a nuovo.

    Esattamente come le abitazioni e i locali perfettamente allineati sulla via principale, Mondomago contribuiva a donare all’atmosfera le sonorità di un ticchettio costante e vivace, vivo.
    Darla ci si era fermata spesso davanti, aveva sbirciato tante volte con il naso schiacciato sul vetro, ma erano state poche le occasioni in cui aveva effettivamente avuto il coraggio di entrarci. Di quei momenti, tuttavia, aveva conservato un ricordo vividissimo e ancora ricordava le geometrie incantate di un luogo intriso di respiri meccanici e sbuffi sommessi. Le tinte calde e legnose dell’ambiente facevano assomigliare il locale ad una vecchia soffitta abbandonata, ma ancora perfettamente in ordine, piena zeppa di tesori e inondata di luce.
    Darling rimase impalata davanti alla porta d’ingresso per svariati minuti. Si accorse di non avere particolari pensieri nocivi ad infestarle il cervello ma, per un qualche motivo, non riusciva a muovere il passo decisivo. Non ancora, almeno. Da quella distanza, non riusciva a vedere all’interno; il vetro della porta non rimandava nient’altro che il suo riflesso un po’ distorto. Fu allora che si sorrise; inspirò profondamente e con un cenno deciso del capo, lasciò che lo scampanellio alla porta ne annunciasse l’ingresso.
    - E’ permesso…? - sottile e circospetta, ma abbastanza alta da spezzare il silenzio dell’ambiente, la sua voce venne assorbita da un coro di congegni magici, accuratamente disposti sugli scaffali e negli espositori tutt’intorno. Il negozio era vuoto.
    Una luce soffusa, vellutata, impregnava il locale di un bouquet di sole. Il parquet scricchiolava sotto ai suoi piedi a ogni movimento e, se in un contesto ben più spettrale, avrebbe cercato di produrre il meno rumore possibile, quell’insignificante dettaglio dava quasi una confezione rassicurante alla sua presenza.
    Incapace di trattenersi, agganciò gli indici dietro la schiena e iniziò a curiosare in giro. Non conosceva l’utilità della metà degli oggetti esposti - immaginava, invenzioni del proprietario -, ma questo non le impediva di mostrare tutta la sua più genuina meraviglia davanti a quelle opere ingegnose. In modo particolare, venne attirata da quello che aveva tutta l’aria di essere un normale mappamondo; girava lentamente su se stesso come a riprodurre il moto di rotazione terrestre e di tanto in tanto Darla poteva giurare di vedere alcune parti illuminarsi. Ecco, lì, in India! Ora in Sud America! E ora proprio sopra le loro teste!
    L’indice longilineo scattò immediatamente verso l’alto come a volerne seguire le traiettorie impazzite e proprio quando la luce si fece un attimino più persistente sopra le zone più remote degli Urali, Darla ci piazzò il polpastrello sopra con l’intenzione di catturarla. Per un attimo, scioccamente, si domandò se non ci fosse qualcuno, dall'altra parte, e se ne avesse il sentore tanto quanto ce l'aveva lei.
     
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    - Lasci che dia un'occhiata, vuole? - il signor Hebenum era titubante. Dalla cinetica così come nell'espressione, si intuiva la reticenza nel permettere a Jo Hicox di dimostrargli le proprie abilità nell'artigianato. Hebenum non palesava stizzoso preconcettismo bensì... paura. Vergogna, forse? Riluttanza all'abbandono, seppur momentaneo. Tuttavia, Jo non aveva alcuna fretta, tanto che attese quello che gli sembrava l'attimo opportuno a proporsi ma senza protendersi nella gestualità. Il solito tono basso e nasale che coniugasse una proposta invitante alla comprensione. Il signor Hebenum, appena giunto, aveva speso qualche parola sul valore dell'oggetto che faticava a cedere. Quattro o cinque frasi mal cucite, eppure, bastanti a capire il valore del suo cimelio. Affermava di non aver trovato nessuno in grado di sistemare il piccolo, antico marchingenio incantato e ciò l'aveva addirittura spinto oltre il confine norvegese per approdare lì. Proprio lì, da Mondomago. Quell'informazione aveva colto Eisen alla sprovvista, non senza lusingarlo intimamente. Senza contare che, casi come quello, gli ricordavano il perché valesse la pena lavorare in funzione d'altri. Il suo aspetto spigoloso e ferrigno ben celava una natura smaccatamente romantica. Disperatamente, imperiosamente romantica, prontamente nutrita dal compito più interessante della sua giornata fino a quel momento: un orologio. Tipico, antiquato, banale? Oro, letterale e metaforico. Nel coperchio, la foto di una giovanissima donna non dissimile da un ritratto a china, il ché indusse il fulvo a chiedersi quanti anni avesse il mago, ovvero lo sposo della ragazza raffigurata. Hicox maneggiò l'accessorio con estrema cura ma, dopo qualche minuto, rivolse uno sguardo perlaceo al cliente: l'orologio era perfettamente funzionante e non fu necessario sottolinearlo verbalmente perché Hebenum si sporse e confidò il proprio segreto al bottegaio. Da quel momento, trascorse una mezz'ora prima che Birke riemergesse dal laboratorio nell'atto di sistemarsi gli occhiali tra i capelli. Lo sguardo gentile e l'orologio nel palmo, aperto come le valve di un mitile. - Ecco, signor Hebenum: è di nuovo rotto. - sua moglie Pernille non eseguiva più movimenti fluidi ma un solo scatto della spalla e degli occhi che puntavano languidi ma sicuri quelli ormai acquitrinosi del vedovo. Jo aveva fermato le lancette sull'orario in cui il primo treno che lo aveva portato da Pernille aveva raggiunto la stazione.

    Il signor Hebenum faticava a crederci ma, pur stando stretto nella sua ammantata compostezza, non poté rinunciarvi. Tuttavia, ciò non gli impedì di esibire una gratitudine rara che si portò dietro in un alone. Poco prima di andar via, però, fu costretto a bloccarsi. Non avrebbe voluto importunarla ma, una potenziale studentessa sembrava aver catturato la sua attenzione. Se non fosse rimasto in piedi, l'Indicibile avrebbe temuto un malore improvviso da parte dello stregone. Impigliato in una rete come una vecchia tartaruga, venne scalzato da un improvviso imbarazzo e fuggì. A quel punto, però, Jo era diventato curioso e la sua fame di scoperta rimpiazzò quella fisiologica, ridottasi drasticamente.

    Si era dimagrito, Jo. Ancora. Gli scavi nel volto vagamente mimetizzati dalla barba di rame, rendevano meno esposta la sua carestia interiore. Anestetizzato, nuotava nella lana di un ampio maglione carta da zucchero, sotto il quale sbucavano i lembi di una camicia bianca. Avanzava con il bastone un po' per l'intermittenza dei dolori alle gambe e un po' per la debolezza che lo coglieva ogni qual volta osava spezzare la sua mordace routine di lavoro. Lavoro, lavoro, lavoro. Era l'unica cosa che lo teneva lontano da se stesso ed era meglio così. Anche se, di tanto in tanto, sortilegi di livello elementare decidevano di ribellarsi al suo potere.

    Ormai giunto alle spalle della biondina intenta a viaggiare attraverso un mappamondo, mosse un passo laterale e il suo profilo lo colpì come uno schiaffo in pieno viso. La somiglianza con Pernille si rivelò stordente, eccezion fatta per qualche colore; ecco perché Hebenum ne era rimasto folgorato. - Dove te ne vai? - azzardò, in riferimento a immaginifiche partenze. Notò il lucore che la ragazza inseguiva, forse scappata a un bosco, dunque aggiunse: - Da qualche parte, negli Urali, sta accadendo qualcosa di importante. - senza accorgersene, le pallide labbra si erano accennatamente curvate in una sorta di sorriso. Poco percettibile, anche se visibile fra i baffi. Non succedeva da tantissimo e, se se ne fosse accorto, l'uomo non se lo sarebbe spiegato.
     
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    DANDELION

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    Caposcuola Tassorosso
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    A volte mi domando se il corpo non sia forse una prigione sotto mentite spoglie. Questo corpo, almeno…a volte ho come l’impressione che mi si stringa intorno e non mi lasci respirare. Se io corro, lui mi segue. Se mi fermo, diventa pesante. E’ come un’impronta che neanche il mare può cancellare. A volte penso che mi piacerebbe essere una farfalla, o uno di quegli uccellini minuscoli che svolazzano da una parte all’altra e quasi non li vedi. Anche loro hanno un corpo, certo, ma per lo meno possono volare. E allora, forse, non sarebbe meglio il vento? Forse. Lui sì che se ne va dove vuole, senza confini che lo trattengano. Si mescola in continuazione con altro vento, finché diventa impossibile distinguere dove inizi l’uno e finisca l’altro. Ecco, è così che mi piacerebbe essere. Dispersa, inafferrabile. Posarmi ovunque e mai davvero lasciare un segno. O distruggere tutto, ben consapevole di non poter essere mai presa.

    Ora che sono libera, però, mi rendo conto di essere spaventata. Come quando assaggi una cosa che sai di voler provare da un sacco di tempo, ma non appena il sapore ti esplode sulle papille gustative non riesci a capire se ti piaccia o meno.
    Mh. Forse no. Forse non mi merito di essere vento.


    La rigida dicotomia che scindeva il corpo e la mente della diciassettenne aveva sempre avuto l’ingrato compito di ricondurla alla realtà con violenta realizzazione. Da bambina, quando ancora faticava a capire le proprie emozioni o dare un nome ai sentimenti, si rintanava in un angolino della propria stanza e lasciava che lacrime silenziose le rigassero le guance fino a prosciugarsi. Perché la sua mente poteva permettersi di sfiorare confini a cui a malapena riusciva a dare un nome mentre il suo corpo rimaneva ancorato a terra, come un grosso macigno? Poteva esserci qualcosa di più crudele? Darlene non riusciva a capacitarsene. Per anni aveva cercato una risposta, non aveva rinunciato a trovare una conclusione a quella faccenda, ma crescendo aveva anche imparato a venirci a patti. A proprio modo, ad accettare. A rassegnarsi.

    Davanti quel mappamondo incantato, dunque, per un momento dimenticò del perché fosse lì, si liberò delle ansie e dei timori e, semplicemente, permise alla sua mente di annidarsi altrove. Di inseguire scie luminose che qualcuno, chissà chi, stava tracciando per lei. Le piaceva pensarla a quel modo, che ci fosse veramente qualcuno dall’altra parte ad accendere stelle terrestri per rassicurarla del fatto che, anche se il suo corpo rimaneva immobile, non significava che anche la sua immaginazione dovesse per forza confinarsi insieme a lui.
    Ne era talmente soggiogata che a malapena si rese conto dei movimenti dietro le sue spalle e della veloce dipartita del cliente che non aveva notato entrando nel negozio.
    Sul suo viso sostava un’espressione serena, distesa in un mezzo sorriso involontario, mentre con gli occhi continuava a correre dietro i pallini luminosi che apparivano e scomparivano a distanze irregolari gli uni dagli altri, in diverse parti del mondo.
    A distanza di qualche secondo, tuttavia, sentendosi osservata, indirizzò involontariamente lo sguardo alla sua sinistra incontrando, oltre la vetrina di Mondomago, il cipiglio sconvolto di un vecchio mago. Le sopracciglia fantasma della giovane scattarono immediatamente verso l’alto, interrogativa; non vi era ostilità nella sua espressione, ma genuina curiosità. Perché la stava fissando a quel modo? Naturalmente, la bozza di un sorriso prese a sbocciarle tra le guance, mentre con la mano sollevata, gli indirizzò un cenno di saluto. Questi, preso alla sprovvista e visibilmente smarrito, scomparve dalla sua visuale in una fuga impacciata.
    Darlene sbatté le palpebre, una, due volte. Il suo cervello era elettrificato a tal punto da pensieri di così ampia natura, che quando poche parole vennero pronunciate alle sue spalle sottoforma di criptico interrogativo, le venne spontaneo rispondere con la naturalezza di chi è sovrastimolato e non ha idea verso cosa rivolgere la propria attenzione.
    - Mai abbastanza lontano, purtroppo -

    La sua concentrazione era tornata ad incanalarsi lungo la traiettoria terrestre. Non realizzò immediatamente, dunque, ma quando lo fece, i suoi occhi si spalancarono impercettibilmente. La spina dorsale si raddrizzò di conseguenza e, con un leggero sussulto, allineò il proprio baricentro all’uomo che le si era avvicinato. Cristallizzata nel limbo della non-reazione, gli piantò gli occhi sgranati addosso e prese ad osservarlo con curiosa insistenza. Lei era piuttosto alta per la sua età ma lui…era un cavolo di lampione. Darla incamerava dettagli sulla scia della propria sfacciataggine. Non notò l’eccessiva magrezza del mago, quanto piuttosto il colore del suo maglione e di quanto quel colore le piacesse e gli stesse effettivamente bene. Non notò il bastone che faceva da prolungamento al suo braccio destro, quanto piuttosto l’espressione soffusa con cui le si rivolse. Dietro una nebbia apparente, sfumava il ricordo di un sorriso e questo la incentivò a ricambiarlo, gli occhi a seguirne le traiettorie distese. Le sue guance si tinsero di carminio nel realizzare quanto si fosse fermata a fissarlo e, simulando nonchalance, si schiarì la gola e rilassò lo sguardo, facendolo vagare dal rosso al mappamondo, soppesando le sue parole e annuendo lentamente come se effettivamente sapesse di cosa l’uomo stesse parlando.
    - Crede che qualcuno, dall’altra parte, stia cercando di dirci qualcosa? - senza distogliere gli occhi da quel pattern luminoso, solamente ora si accorse di come alcune luminescenze continuavano a ripetersi insistenti. Stesso luogo, stessa intensità, come se cercassero a tutti i costi di non farsi dimenticare. Darlene aggrottò leggermente la fronte, mentre le labbra si schiudevano a seguire la scia del suo velato turbamento.

    Un silenzio carico di attesa la cullò per una manciata di minuti, prima che l’ennesimo pensiero disconnesso le trafisse le sinapsi e, timida, tornò a rivolgersi allo sconosciuto che non si era mosso dal suo fianco. Le dita, cisterna di nervosismo, si impigliavano e si sbrogliavano ripetutamente dal lembo del suo cardigan.
    - Lei è il signor Jo Hicox, vero? Io mi chiamo Darla. Darlene, veramente, ma Darla lo preferisco…Sono un’amica di Jericho - abbozzò, circospetta, mordicchiandosi l’interno della guancia. - Ecco, vede…Jericho mi ha detto, che Malcolm gli ha detto, che potevo venire qui da lei e chiederle se per caso avesse bisogno di qualcuno che l’aiutasse in negozio. Io…studio ancora, sono al settimo anno, non ho molta esperienza…ma imparo in fretta! Lo giuro! Posso fare tutto! Si, insomma…qualsiasi cosa vi sia bisogno… -
     
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