Me and Which Army?

Eilean Sùbhainn (Loch Maree), Scozia - M.B.

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    Qualche gracile ranuncolo spuntava tra le tegole sconnesse di una piccola casa diroccata immersa in un pallido sole settembrino. Le minuscole inflorescenze gialle e rosse ciondolavano a ogni folata del vento che annuncia il rapido mutare del tempo e l’arrivo inesorabile del temporale.
    Dacché l’aria si fece più fredda, i vetri polverosi delle finestre iniziarono ad appannarsi, dando alla casa un aspetto vagamente sinistro, come fosse un mostro dai tanti occhi annebbiati e cerulei.
    All’interno l’aria era resa calda e pesante dalla spessa colonna di vapore bluastro che s’innalzava dal camino. Sulle braci, uno spesso calderone di rame bolliva gorgogliando, mentre un mestolo incantato ne miscelava diligentemente il contenuto.
    Non fosse stato per il lento respirare della magia, si sarebbe potuto pensare che il tempo si fosse fermato.

    Urian Sinister aveva visitato quel luogo un’infinità di volte, nei mesi precedenti ma mai, prima di allora, l’aveva fatto con le sembianze che gli appartenevano. Quando la vecchia traghettatrice aveva aperto la porta e se l’era trovato d’avanti, l’aveva squadrato da capo a piedi, in silenzio, prima di farlo entrare. Non disse nulla nemmeno quando gli diede le spalle e, con un colpo di bacchetta, mise a bollire l’acqua per il tè. Una tazza, per colui che da lì a poco l’avrebbe messa a tacere per sempre. Che ne fosse o meno consapevole, sfumava davanti agli occhi chiari del Diavolo con una dignità tale verso cui il trentaduenne non riusciva a non provare una generosa dose di rispetto. E in fondo, pensò, glielo doveva. Si riteneva abbastanza magnanimo da mostrarle le sembianze di colui che l’avrebbe uccisa.

    ***


    Teneva le ginocchia strette su un letto fragrante di foglie, in grembo un cartoccio di pelle e stoffa sozzi di limo mentre il proprio volto era sporto verso lo specchio d’acqua del lago che li circondava. Loch Maree, che gorgogliava placido e non rifletteva nulla. Né volti conosciuti né il proprio.
    L’acqua è soltanto acqua, ancora una volta.
    Anche quando, per provare le sue ragioni, lasciò che il corpo raggrinzito della vecchia colasse a picco tra le grinfie di una ragnatela di scogli. Il cranio si ruppe su sassi e sporgenze e la riva del lago si tinse di rosso.
    Per un attimo, si fermò ad osservare quello spettacolo di sublime deflagrazione e confermò a sé stesso l’inconfutabile condizione umana che spinge chi ne è affetto a vivere d’illusioni.
    Se fosse stato un vero specchio, non sarebbe di certo annegata così, nel suo stesso sangue e tra i i suoi stessi resti spinti alla deriva dalle placidi correnti in un comico e autoironico scroscio.

    Era più creatura mistica e assurda lui di chiunque vedesse simbolismi in ogni granello di terra pur di non interfacciarsi con il mondo reale.

    ***


    In fondo, dovevi aspettartelo.
    Allora, hai esitato nel farti ritrovare per questo motivo, non è vero? Credevi che nasconderti in mezzo ai tuoi simili fosse sufficiente. Perché sapevi. Sapevi che, una volta che ti avessi ritrovato, nessun patto avrebbe più legato la tua vita alla mia.
    Fragile, patetica vita.

    Mi sei stato utile, per un po’. Ti ho voluto bene, per un po’. Siamo stati simile, per un po’.
    Noi, con le nostre innumerevoli lacune emotive di chi non sta stare al mondo.
    Io, dal canto mio, ho una psiche fortemente compromessa da questa lungimiranza che mi attenaglia, della quale chiunque farebbe vanto ma io ne faccio fardello, perché tutte ‘ste facce che mi accerchiano le vedo deformi d’accidia. Dileggiano beffarde e additano con piglio giudicante il loro capro espiatorio, con i loro occhi abnormi e le labbra umettate da ossessioni ninfomani, pettegolezzi gratuiti.
    Cosa dici? Non sai se le mie sono proiezioni psicotiche e quindi sono io lo scarabocchio abbozzato al margine di un pianeta così denso di gente o sono loro ad essere ritratti iper realisti dell’essere disumano moderno? Ma certo, ma certo. Tu mi hai sempre creduto pazzo, d’altro canto.
    E allora io ti rido in faccia. Perché non me ne frega un cazzo di ciò che pensi di me. Lo sai anche tu, Ezra, che ti ucciderei all’istante, se solo potessi. L’avrei già fatto, molto tempo fa.

    Quanto vorrei figurare anch’io perfette asimmetrie e linee dolci che celano gli orrori insiti, ma ho una vista periferica che si è adattata a questo ecosistema in decomposizione di macchiette e pallide emulazioni, accomodate su un esistenza che si consuma a sgoccioli.
    Magari sarai tu a pregarmi di ucciderti, prima o poi. Anche quando ti sarai dimenticato di me. Ti piace, come prospettiva? A me piace pensare che non potresti mai dimenticare, nemmeno volendo, nemmeno per forza.

    E’ necessario, tuttavia.
    Che io ti lasci andare.
    Che tu faccia ritorno alla fogna dalla quale sei venuto.
    E quindi, Obliviate.


    ***


    Il monile è una passaporta.
    Si attiverà tra due giorni.
    Sono pronto a riscattare il favore che mi devi.
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    Eilean Sùbhainn vestiva novembre con imponente fierezza.
    Urian ne studiava i profili brulli e selvaggi dalla riva opposta poco distante, in prossimità della vecchia casa diroccata un tempo appartenente alla vecchia traghettatrice. Ora vuota. La piccola isoletta, polmone pulsante e vivo, distava solo pochi metri dalla terraferma, ma quelle poche bracciate diventavano trappola mortale per chiunque tentasse di eludere le protezioni magiche e le volontà volubili della traghettatrice. Ora che la vecchia strega era morta, la volontà d’azione apparteneva solo e soltanto a lui.
    Non poteva farlo da solo, tuttavia. Nella fitta trama che portava avanti da mesi, aveva lasciato pochi margini alle ipotesi più favorevoli; una parte di lui, per esempio, aveva sperato che il muro magico crollasse così come aveva fatto il corpo della strega, davanti ai suoi occhi, ma così non era stato. Per questa ragione, non poteva raggiungere quella fortezza a cielo aperto senza l’appoggio di qualcuno. Per questa ragione, due giorni prima, poche righe tracciate ad inchiostro nerissimo avevano trovato incastro sopra la scrivania di Malcolm Bowie.
    Era ironico come il capo degli Auror, ad ora, fosse l’unica persona verso cui provasse ancora un briciolo di fiducia. L’unica che gli era rimasta, dopo aver fatto piazza pulita di coloro ai quali aveva permesso di gravitargli attorno finché gli erano stati utili. Ezra Gallagher era uno di questi.

    Doveva ammettere che aveva apprezzato il suo essere così parsimonioso. Non si era fidato di lui dietro sbarre impenetrabili ma, implicitamente, non si era fidato nemmeno di sé stesso. Affidare la refurtiva alla custodia della traghettatrice, tuttavia, era stato tanto oculato quanto stupido. Eilean Sùbhainn era la sua casa, il suo cuore, e il prezzo che si chiedeva di pagare ai disperati che sceglievano di affidarle il proprio bene più prezioso veniva spesso barattato per ciò che molti non potevano dire di avere il lusso di possedere: il tempo. La traghettatrice non si faceva custode solamente di beni materiali, ma anche di segreti; molti, tuttavia, non vivevano mai abbastanza a lungo per tornare a riprenderseli.
    Ezra ci aveva messo un po’ a confidargli dove avesse scelto di custodire il malloppo, dopo il suo arresto e Urian, conoscendolo, se l’era lavorato con pazienza, al fine di assecondare la sua reticenza. Tuttavia, ora che la vecchia era morta e tutto ciò che lo riguardava, nella mente dell’energumeno, s’era trasformato in una nebbia fitta e acida, non vi era più nulla che lo ostacolasse dal reclamare ciò che diritto gli apparteneva.
    Questo, era stato il suo piano fin dall’inizio. Non aveva mai davvero avuto l’intenzione di dividere la refurtiva. Anche prima del patto. Anche prima delle manette a graffiargli le vene.

    Appoggiato con i reni al legno marcescente di una vecchia barchetta abbandonata sulla riva, osservava l’orizzonte sfumato e terroso, in attesa. Nuotava nelle sue solite sfumature di grigio, i lembi del cappotto a sbatacchiargli sulle cosce con intermittenze da codice morse. La mascella non era perfettamente rasata come suo solito ma i capelli, leggermente lunghi, sfidavano il vento e gli solleticavano la nuca come artigli tentatori.
    Si percepiva sempre più anormale, circondato da carcasse vuote di menti che collettivamente si drenavano a vicenda per suggere, fino all’ultima goccia, sentimenti di seconda mano. Non riusciva più a capire se era lui, creatura amorfa e caricatura di un fatalista rassegnato all’idea di sentire tutto e troppo, fino a morirne, o se era chi lo circondava a barattarsi i pensieri per la parentesi fugace di un sonno tranquillo.
    La vita così come lui l’aveva conosciuta, ahimè, continuava ad essere fatta per chi avanza pretese di marce funeree e di teste appese, di gente che prega sperando che qualcosa cambi e di chi è in attesa, auspicando che qualcuno crepi al posto loro. Di alibi e di drammi, di chi fa la vittima e di chi dice che amarsi è una cosa intima. Di chi lancia la pietra e poi nasconde la fionda, di chi piange per quello che dopo la sfonda. Di chi è ipocrita, sì, ma con il culo degli altri. Di chi sta in silenzio quando vede i mostri.

    Per questo, ancora una volta, s’apprestava a riscriverne il finale.
     
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    Ti prego, aiutami.

    Non me ne frega un cazzo.

    Regent's Park



    Stavolta sei riuscito a salvarmi.

    Ricordati, tuttavia, che tutto ha un prezzo ed io non sono solito fare sconti.

    Non me ne frega un cazzo.

    Memento Mori



    Quella mattina, Marceline aveva pronunciato la parola "papà". Gliel'aveva sussurrata sulla barba, ridendo per il solletico. Non era la prima che diceva, era venuta comunque dopo "mamma", ma quella piccola voce si era conficcata nel suo muscolo cardiaco con la rapidità di una freccia scoccata. Papsie gli aveva sorriso sorniona, inconsapevole della lettera che il suo futuro marito avrebbe ricevuto qualche ora successiva.

    Il monile è una passaporta.
    Si attiverà tra due giorni.
    Sono pronto a riscattare il favore che mi devi.


    Dopo aver lasciato scorrere lo sguardo sulle sillabe che componevano quella missiva, la voce di sua figlia rimbombò tra le pareti dell'intelletto non più come fonte di emozione positiva, ma come un avvertimento preoccupato. Un segnale d'allarme.

    Malcolm Bowie era in debito e, tale debito, non aveva l'aria di poter essere riscattato con una sonora pacca sulla spalla o un semplice assegno: dopo poco più di un anno, ecco che la lingua biforcuta del Diavolo era tornata a sibilare nel suo orecchio. Se l'era presa comoda, a quanto pareva, ci aveva ponderato parecchio. Il Grizzly se lo aspettava, razionalmente sapeva che quel momento sarebbe arrivato ma, in maniera del tutto inaspettata, quelle poche righe inchiostrate ebbero l'immediato potere di serrarsi allegoricamente intorno alla carotide taurina, come un collare elettrificato. Era l'effetto che faceva il giorno della forca su un condannato alla pena capitale, era la sensazione provata dal terzo fratello che, per tutta la vita, era sfuggito alla Morte perché celato alla sua vista scaltra. Il momento del patibolo era arrivato, così come quello di togliersi il Mantello dell'Invisibilità: avrebbe ripagato il suo debito, malgrado fosse pienamente consapevole del fatto che Urian Sinister gli avrebbe chiesto molto. Ci aveva riflettuto più di un anno, d'altronde. Un anno passato a rimuginare sul modo perfetto di sfruttare quello che, una volta, era stato una delle sue pedine volontarie. Una delle più affezionate, tra l'altro. Ma non era un problema, si disse il bifolco, perché tutto ciò era servito a riportare a casa Paprika. A riportarla da lui. Ogni tortura, ogni affare losco, ogni compromesso scabroso, ogni legge violata... ogni cazzo di gioco valeva quella candela.

    Con ancora il monile stretto tra le brutte e tatuate dita sinistre, Malcolm Bowie aveva appena raggiunto il luogo designato e, il primo elemento in cui si imbatté, fu l'arroganza del vento autunnale che fendeva gli zigomi, cicatrice compresa. L'energumeno di Leith assottigliò le iridi oceaniche, gettandole in pasto al panorama che gli si presentava davanti: non aveva idea di dove cazzo si trovasse, per il momento, ma si trattava di un paesaggio che si sposava orrendamente bene con la persona che lo aveva gentilmente invitato. Fu immediato riflettere su quanto potesse essere grande l'ego del Diavolo, se ogni volta che ci aveva a che fare, Bowie finiva faccia a faccia con un ambiente che si confaceva alla perfezione con le sue corna e con i suoi zoccoli: il blu era stato risucchiato da una tonalità di grigio la cui freddezza era talmente intensa da mettere in soggezione chi non era abituato a nuotare con gli squali. Non era il caso di Ziggy, le cui ossa si erano inspessite grazie a tutte le volte in cui le quattro file di denti aguzzi avevano affondato nelle sue carni stoppacciose. Malgrado le sue pupille fossero appena incappate sulla figura accartocciata di Urian Sinister, lo sbirro aveva appena deciso di prendersi tutto il tempo del mondo: dunque, si portò alle labbra screpolate una sigaretta e, serrando gli incisivi intorno al filtro, l'accese. Il fumo sprigionato dalla brace accesa si alchimizzò istantaneamente con la lieve foschia che rivestiva la costa, mentre il cuore rattoppato di Malconcio sprecò un battito di troppo contro l'ampio sterno: poteva continuare a raccontarsela ma, avere a che fare con quel demonio, gli avrebbe sempre fatto effetto.

    Arreso al sentimento di debito che provava nei confronti di Urian, il bestione espirò anidride carbonica e tabacco dalle narici e, serrando le mascelle, mosse i lenti passi che lo separavano dalla bagnarola dentro cui si era rifugiato il suo creditore. Arrivato alle spalle del Diavolo, gli sembrò un'ottima idea palesarsi tramite l'azione di salire, senza annunciarsi, sulla barchetta: sbuffando, si lasciò cadere sgraziatamente sul legno che cigolò sotto il suo dolce peso. Aspirò nuovamente dalla sigaretta, stropicciandosi l'occhio sinistro con l'anulare impreziosito dall'anello di fidanzamento: -Mbé, Sin Boy, se volevi chiedermi n'appuntamento avresti anche potuto dirmelo con chiarezza. Non mordo mica.- proferì sarcastico, con il solito tono di voce trascinato, mentre inclinava la testa bruna da un lato e lo osservava, traducendo la curiosità attraverso un sopracciglio sollevato -Avanti...- mormorò, lasciandosi andare ad un sospiro pesante -...A che ti servo, oggi?- domandò, con la sigaretta che, ad ogni parola, rimbalzava ritmicamente sul labbro inferiore. Lo scrutava con l'espressione contratta che spesso riservava ai casi irrisolti, forse perché, per lo scozzese, Urian Sinister sarebbe sempre stato un rompicapo che non aveva interesse di risolvere. Preferiva di gran lunga esibirsi in fiacchi tentativi di risoluzione e poi lasciarsi confondere ancora una volta. Lo trovava più appagante, come un cane che rincorre una macchina e, una volta raggiunta, non sa che farsene.

    Non avevano un colloquio privato da più di un anno, eppure Malco percepiva ancora lo stesso tipo di calore della prima volta. Ma non si trattava del calore sprigionato dal focolare domestico, non quello viscerale che fa formicolare le vene durante una scopata. No: era quello accogliente dell'Inferno. Malgrado le tinte gelide e desaturate che circondavano i due uomini, il Capo degli Auror avvertiva ognuna delle fiamme luciferine solleticargli la nuca, provocandogli quel familiare quanto indicativo prurito che preannunciava una situazione tutt'altro che sicura.

    Cosa ci facevano lì, su quelle sponde traumatizzate dall'andirivieni delle onde salmastre? Qual era il grande - e sicuramente poco legale - piano architettato dalla mente acuta e inquietante di Urian? Bowie puntò gli occhi blu - l'unico blu rimasto - sulla riva opposta, supponendo di doverla raggiungere. Il vento parve intercettare i suoi pensieri perché, soffiando crudele, sollevò il bavero del suo pesante giubbotto d'aviatore.
     
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    Dicono che non bisognerebbe mai guardare negli occhi una persona che viene obliviata.
    Apparentemente e paradossalmente, è più il dolore destinato al carnefice che quello destinato alla vittima. Dura solo pochi istanti, ma ad ogni secondo consumato è come se si passasse da uno stadio all’altro di quel processo di privazione, il più delle volte, involontario: il decorso clinico di una malattia degenerativa. Nei primi due stage vige un nostalgico senso di deterioramento. Dal terzo stadio tutto comincia a distorcerci e a perdere di consistenza e senso logico. Ci sono momenti ovattati in cui il suono della memoria incombe bruscamente, piccoli lampi di lucidità che fanno capire al protagonista dell’incubo che qualcosa non va, in lui. Il fatto che se ne renda conto è straziante e un temporaneo senso d’isolamento collassa sulla bocca dello stomaco, togliendogli il respiro. Sa di essere rimasto l’unico al mondo, ma non capisce perché. Il quarto stadio è la totale perdita del pensiero coerente; non c’è più un mondo e non c’è più nessuno che lo abita. Tutto ciò che esiste sono ricordi sempre più rovinati, isolati, disturbati. Il quinto stadio lascia dietro il suo passaggio confusione e orrore, paura lancinante e tormento. Il sesto, infine, rappresenta la fine del declino: non c’è più niente e nessuno, dentro la sua testa. A malapena la sua voce.
    E’ terrificante pensare di dimenticare, ma è peggio dimenticare di aver dimenticato.

    Quando successe, gli occhi di Urian Sinister non si staccarono per un secondo da quelli di Ezra Gallagher.
    Osservò fluire dalle sclere iperuraniche, il filo sottilissimo del legame che li aveva tenuti insieme per così tanti anni e quando, alla fine, ne venne recisa l’estremità più remota, gli parve come di percepire un ulteriore peso gravargli in mezzo alle scapole. Gli si sarebbero incrinate le costole a furia di portarsi addosso il peso delle vite degli altri - quelle che lui stesso si divertiva così tanto a distruggere -, ma un pensiero tanto gravoso non sembrava accendere alcun genere di preoccupazione, in lui. I ricordi del Farmacista gli scivolarono sul fondo della gola con un retrogusto agrodolce: l’ennesima esistenza rubata di cui avrebbe fatto tesoro nel suo personalissimo ossario mentale.
    Esisteva una sorta di legame covalente ineluttabile tra lui e l’insostenibile consapevole di essere ed esistere sui resti di qualcun altro. Sotto questo punto di vista, non sarebbe mai cambiato: avrebbe continuato a vivere ed incarnare anatomicamente gli ossimori più crudeli ed i loro conflitti interni.

    Malcolm Bowie rappresentava ancora l’eccezione. L’unica che continuava a concedersi, sulle fila di un gioco sottilissimo e pericoloso cui proprio non riusciva a rinunciare. Forse perché, tra tutti, il Capo Auror rappresentava l’evoluzione più improbabile e singolare cui aveva assistito nel corso degli anni. Sotto molti punti di vista, l’aveva superato e aveva superato il passato che li aveva così teneramente legati; tuttavia, si aggrappava avidamente alle redini delle fragili fila rimaste a marcire sotto quegli strati ripuliti poiché erano anche le uniche che il Diavolo riusciva a vedere chiaramente e riconosceva come parti integranti della sua essenza.

    Era più di un anno che non si vedevano, ma avrebbero potuto benissimo essere passati un paio di giorni. Aveva sempre funzionato così, d’altronde. Come incastrati in un processo anomalo di allineamento astrale, le loro strade trovavano sempre la maniera di ricongiungersi, in un modo o nell’altro. Forse era proprio per questo che Mal era rimasto l’unico in grado di tollerare. Era doloroso da ammettere persino per sé stesso. In fondo, nell’ultimo anno, erano state più le domande rimuginate rispetto a quelle cui effettivamente era riuscito a dare risposta. I suoi pensieri s’erano amalgamati come pongo sul fondo del suo cervello e, come pongo, li aveva modellati senza che avessero corpo, cogitazioni della sua condizione umana. Perché se anche Cogito Ergo Sum è locuzione lapalissiana ed empirica, lui più pensava e più tendeva a perdersi in una goccia d’acquaragia, per poi dissolversi sotto un getto di solvente.
    Più volte, s’era creduto sull’orlo dello squilibrio. Più volte, s’era ritrovato a ribollire di un’invidia livida davanti al pensiero della mente svuotata del Gallagher, fantasticando a parti inverse per poi scorticarsi dall’interno per averlo anche solamente considerato ed essersi abbassato al destino dei vili, degli inutili.
    In un certo senso, l’apparizione di Malcolm parve dissipare il delirio di quegli ultimi mesi, cullandolo nell’illusione di un passato familiare, di un ruolo che aveva sempre calzato con così tanta sicurezza. Non si girò nemmeno, poiché avrebbe potuto riconoscere i fruscii di quell’andatura sgraziata in mezzo a mille.
    Sbatté le palpebre e le pupille protestarono aldilà di una cortina arida e arrossata dal vento e dalle molteplici nottate insonni. L’espressione folle venne mascherata aldilà di un ghigno allarmante. Il legno marcio scricchiolava timidamente sotto lo scatto impercettibile dei suoi movimenti, per poi cedere definitivamente una volta raggiunto dallo scozzese. Ripiegò le ginocchia e, poggiati i gomiti fasciati dal cappotto sopra le stesse, si voltò lentamente a ricercare la punta di blu così simile alle propria. Il ghigno era rimasto a sfigurargli i connotati e, se possibile, s’era ulteriormente intensificato davanti l’espressione interrogativa dell’uomo che gli stava di fronte.
    - E guastare un matrimonio prima ancora d’essere celebrato? Non pensavo avessi una considerazione così bassa, di me, Mal - le parole gli uscirono strascicate, rauche, come se non parlasse da anni e lui stesso non fosse più abituato al suono della sua stessa voce. Le dita allungate della mancina si aprirono a ventaglio sopra il suo sterno, assottigliatosi dalla fame e dalla mania e, per una frazione di secondo, un bagliore anomalo gli attraversò lo sguardo. Dimmi che non ce l’hai, Mal. Dimmi che mi consideri ancora al di sopra di tutti gli altri.

    Le labbra del Diavolo, ancora sigillate, si spaccarono in una feritoia sbiancata oltre la quale non uscì alcun suono, se non un rivolo tiepido, ben presto raffreddato in una nuvola di condensa davanti il viso di entrambi.
    - Che c’è, sei nervoso? - gli domandò a bruciapelo, sollevando un sopracciglio scuro e scrutandolo come se non potesse capacitarsi dell’unico stato d’animo contemplabile in una situazione come quella. Mentre continuava ad adocchiarlo dalle retrovie, si posizionò meglio su una delle assi di legno della barchetta, così da fargli da specchio: non avrebbero potuto essere riflessi più diversi di così.
    Il catalizzatore gli apparve nella mano destra quasi come l’avesse appellato da chissà dove e, dopo esserselo rigirato tra le falangi pallide, lo strinse in una presa più stabile, frapponendolo nello spazio che separava i loro corpi. La mano libera, invece, scattò in avanti e andò a reclamare la presa molle dell’altro; fatti coincidere i due palmi, le dita si strinsero in automatico nello spazio rigido tra pollice ed indice, ingabbiando i movimenti di Bowie sotto una presa ossessiva, ferrea.
    - Non mi servi tu, mi serve la tua morale - gli rispose, infine, lo sguardo concentrato ed abbassato lì dove le loro mani trovavano terreno comune e per nulla fertile. Senza aggiungere altro, prese a bisbigliare sottovoce, muovendo il polso libero e così la punta della bacchetta, tracciando ellissi nell’aria. Un filamento argentato prese a generarsi dalla punta del catalizzatore, avvolgendosi pigramente intorno alla linea di congiunzione delle loro mani; uno, due, tre giri.
    Per un secondo, il vento parve quietarsi come se anche la terra si fosse premurata di trattenere il respiro davanti a quella scommessa d’intenti. Lo stesso Urian si perse per un attimo nello sguardo limpido dell’altro, chiedendosi se sarebbe stata o meno quella scelta a costargli la vita.
    Per attraversare quella sottilissima striscia di lago, bisognava che l’imbarcazione fosse bilanciata a livello morale. Prima che la vecchia traghettatrice fosse fatta annegare nel suo stesso sangue, era lei l’ago in equilibrio della bilancia. Urian ne era ben consapevole ma, nonostante tutto, aveva deciso di ucciderla ugualmente perché in egual misura, sapeva che mai e poi mai si sarebbe lasciata corrompere dalla sua lingua tentatrice. Scegliere Malcolm Bowie come sostituto di quell’anima candida pareva più uno scherzo che la scelta di un’assennato, ma Sinister era pronto a rischiare tutto pur di dare conferma alla sua bislacca teoria. Il rischio di condividere un destino d’annegamento alimentava la sua mania interiore, facendogli vibrare le viscere d’esaltazione.

    Così, senza distogliere lo sguardo da quello dell’energumeno di Leith, gli concesse un sorriso indecifrabile, prima di sussurrare: - Flipendo -
    La barca iniziò a muoversi.
     
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    Quando gli occhi del Diavolo tornarono a squadrarlo, il Grizzly ci scorse un lampo indefinibile: chissà quali sentimenti si agitavano aldilà dei bulbi e delle cavità oculari di Urian, e e cosa avesse provocato tale, impercettibile smottamento. Nel corso di quell'anno in cui le loro strade non si erano incrociate, era capitato qualcosa che aveva cambiato le carte in tavola e Sinister, abile croupier, aveva rimescolato il mazzo in maniera tale da riuscire a sfoderare l'asso nella manica, senza essere sgamato: Malcolm era l'Asso di Spade, non per la valorosità dell'arma o per l'archetipo della fierezza eroica, ma per il significato stesso del tarocco. Un destino inevitabile, il karma che, presto o tardi, si ripresenta alla tua porta e bussa. Bussa-bussa-bussa, finché i cardini non saltano e il legno non si sfonda. Nel momento in cui Bowie aveva chiesto aiuto a quello che, in passato, era stato la sua ancora di salvezza arrugginita, sapeva che prima o poi avrebbe dovuto pagare il conto. Allo stesso modo Urian, di conseguenza, sapeva che prima o poi avrebbe avuto nuovamente bisogno di colui il quale era stato il suo mastino più fedele. Corsi e ricorsi storici, avvelenati dalla consapevolezza di non avere scampo: l'uno era indispensabile per l'altro e viceversa. Forse non l'avevano ancora inquadrata (accettata) del tutto, ma quella era la verità.

    Tuttavia, le congetture di Malco si limitavano a ciò che poteva stringere tra le brutte mani: non aveva idea di cosa fosse successo di così importante da costringere Sinister a fare una mossa nella sua direzione, poteva unicamente credere che si trattasse di qualcosa di estremamente pericoloso e, molto probabilmente, illegale. Le prime parole che il Diavolo gli rivolse erano legate ad un'informazione che non era di dominio pubblico ma di cui, ovviamente, Urian era entrato a conoscenza senza troppe sorprese: il fidanzamento ufficiale tra l'energumeno di Leith e Paprika Le Miel. Aggrottando la fronte, il bestione si esibì in una smorfia in parte contrariata e in parte arresa, prima di sbuffare una risata bassa e afona alla punta degli scarponi: -Nah, figurati, meglio mettere direttamente a rischio la vita del padre di famiglia e futuro marito, mh?- proferì retorico, adocchiandolo con espressione eloquentemente sarcastica. No, purtroppo per Malco, la sua considerazione nei confronti di Sinister era tutt'altro che bassa. Non sapeva spiegarsi perché, specialmente dopo quanto vissuto negli anni da senzatetto, ma non riusciva a sbrogliarsi di dosso l'idea che aveva di lui. Il sentimento di eterna riconoscenza che, stupidamente e più volte, era sfociato in vera e propria devozione. Ora era tutto diverso, sì, ma Bowie sapeva di non riuscire - di non volere - a rimuovere il velo di ammirazione che genuinamente provava per il suo aguzzino. Stimava il suo essersi "fatto da solo", la sua ascesa dal buio e la sua discesa negli inferi, la perseveranza resiliente che contraddistingueva ogni sua scelta. Per assurdo, gli sembrava che Urian Sinister possedesse molta più consistenza di se stesso, ancora scisso, dopo tutti i cambiamenti attuati e subiti, tra stabilità e ideali traditi.

    Trasalì, quando il Diavolo gli arpionò il polso e, come naturale conseguenza, le sue dita tatuate si strinsero come una tenaglia intorno al gemello più ossuto. Se solo avesse voluto, gli avrebbe spezzato le ossa con un unico movimento della mano. Se solo avesse voluto, la morsa si sarebbe estesa alla giugulare. Eppure lo lasciò fare e, preso dal moto falsamente quieto delle acquee, si esibì in un respiro pesante, quando l'altro eseguì un sortilegio a lui sconosciuto. Qualcosa gli diceva che i giochi stavano per cominciare e, a confermarlo, fu la rivelazione da parte del negoziante: a quanto pareva, lo aveva chiamato per la sua presunta morale.

    -Ambé, annamo bene allora.- quello fu il primo commento che abbandonò le labbra screpolate dal vento di Mal, in uno sbuffo atto a rilasciare un po' della tensione accumulata -Mi sa che hai puntato sul ronzino sbagliato, Sinnie.- aggiunse, grattandosi la barba rossiccia e prendendo in filosofia il fatto che la barca si stesse muovendo sulla superficie del lago. Inspirò a pieni polmoni l'aria circostante, assottigliando le iridi cobalto nel tentativo di visualizzare l'altra sponda: non era un tragitto eterno ma, date le premesse, immaginava che non sarebbe stata affatto una gitarella tra innamorati.

    Era la persona giusta? Cosa poteva offrire, moralmente, se non miseria, convenienza e continue contraddizioni? Si ritrovò a riflettere su se stesso, mentre lo specchio lacustre faceva lo stesso con entrambe le sagome maschili. La bacchetta in larice ora stretta tra le falangi mancine, le ganasce che, ritmicamente, pulsavano di pari passo all'anidride carbonica che fuoriusciva dalle narici. L'espressione tesa della faccia da schiaffi tradiva la sua impazienza: non voleva morire. Si era ritrovato tante volte a desiderarlo, specialmente nel periodo in cui Urian gli aveva teso il forcone. L'ultima volta che lo aveva sperato, era stato quando Jo lo aveva raccolto dal porto di Leith sul punto di gettarsi in mare perché lui e la Gatta Grigia si erano lasciati. Ma ora no: ora voleva vivere. Per lei, per Marceline, per se stesso. Era la prima volta che lo pensava in maniera totalmente lucida. Vivere era l'unica opzione possibile e Urian stava minando coscientemente tale obiettivo.

    -Io non devo e non voglio morire, Sin Boy, quindi fai in modo che non succeda.- sibilò ad un certo punto, inarcando un sopracciglio mentre le onde, sotto di loro, parevano ingrossarsi -Altrimenti ti trascino sul fondale di questo lago del cazzo.- aggiunse, come se Sinister non avesse messo in conto la concreta possibilità che spirassero entrambi. A quelle parole, proferite con un tono vagamente più aggressivo, il lago parve rispondere sballottando l'imbarcazione: l'acqua, scurissima, penetrò nel legno e cominciò ad accumularsi sul fondo della struttura, appesantendola.

    -Eh, te pareva.- ringhiò sommessamente. Tra le pieghe dell'intelletto, si alternavano strisciando diversi episodi della sua miserabile vita, come una crudele lista di pro e contro: aveva picchiato, quasi a morte, Alan Montgomery Foreman. Era un buon padre. Aveva provato piacere nell'infliggere dolore ai Mangiamorte. Era una persona affettuosa e che aborriva le ingiustizie. Aveva rubato, profanato, vessato, massacrato. Aveva salvato delle vite, in diverse occasioni. Ne aveva distrutte altrettante. La sua evoluzione consisteva in una costante espiazione. Quanto di lui era davvero nobile, se a veicolare le sue decisioni era il senso di colpa? Non era sempre così, era vero, ma lo era stato spesso in passato. Sarebbe morto in quel lago e non nel Mare del Nord, come previsto anni addietro? Cambiava la scena ma non la sostanza.

    -Urian!- aggrappato alla sottile balaustra della scialuppa, l'Orso si sentì tirare da una forza primitiva e invisibile al di sotto delle onde nere. Fece resistenza per quanto poté ma, la presa intorno al catalizzatore si allentò e lui, all'improvviso, finì in acqua. Non mancava molto alla riva, ma tutto sembrava rapidamente e pericolosamente disgregarsi davanti ai loro occhi: La scritta "shit" sulla mano destra di Bowie fece capolino sul bordo di legno della barca. Era ancora vivo, l'adrenalina e la voglia di vivere - di riscattarsi, di espiare, di smaltire il senso di colpa, di riemergere, di vivere, vivere, vivere - lo stavano aiutando a non cedere, ma non ce l'avrebbe mai fatta, da solo. Fradici, i capelli bruni gli si incollarono allo scalpo e alla fronte corrugata, mentre il panico si impadroniva delle sclere oltremarine. Esse tremavano, ad un ritmo diverso rispetto a quello avviluppante del lago furibondo.

    Ricorda, Sin Boy: io non devo morire.
     
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    - Quando mai ho sbagliato, Mal? -
    La retorica di quella domanda, abbandonò le labbra sottili del diavolo lasciando ben poco spazio ad una replica che potesse in un qualche modo smentirlo. Percepiva lo scetticismo nelle parole del Capo Auror, e la velata minaccia che gli indirizzò, lo fece sghignazzare di gusto. Vuoi scommettere?, avrebbe voluto chiedergli, ma a Malcolm Bowie non conveniva scommettere con Urian Sinister. Non lì, non quando l’ago della bilancia pendeva terribilmente verso una dipartita prematura.

    Nel momento in cui la parola “morale” s’era insediata tra loro, Urian aveva morbosamente iniziato ad osservare le micro-reazioni cristallizzate nelle manifestazioni grossolane dello scozzese. Considerava il suo ragionamento fallace, si capiva. Una presa in giro. Da quando aveva così poca fiducia in lui? O forse era esattamente il contrario. Ne aveva fin troppa e non perdeva mai occasione di dimostrarglielo. Lo lusingava o lo annoiava, questa cieca devozione nei suoi confronti? Difficile stabilirlo. Malcom Bowie non voleva morire ma, nonostante ciò, stava mettendo gli esiti della sua vita nelle mani corrotte della persona che continuava a tenerlo legato a sé dal filo sbiadito di una necessità passata. Urian avrebbe quasi potuto commuoversi, davanti l’aggressiva vulnerabilità dell’uomo che lo stava implorando di vivere, vivere a qualsiasi costo, ma la mascella si serrò attorno ad una risposta muta, mentre i suoi occhi di brina non abbandonavano per un secondo la loro controparte cerulea. Fu in quello scambio silenzioso che andarono a concretizzarsi gli schieramenti aldilà di un duplice assenso: Malcolm aveva tutto da perdere, al contrario di Urian. Non esisteva futuro capace di trattenerlo a sufficienza ai limiti dell’assennatezza, solamente un presente solido abbastanza da permettergli di schematizzare la sua prossima mossa. Viveva in funzione di sé stesso, dei suoi bisogni terreni ed immediati, una droga che inibisce per un paio d’ore prima che l’astinenza ricominci a farsi sentire. E dunque ricominciare daccapo. Non esistevano posteri, non erano contemplati strascichi. Piuttosto morire, dunque, se vivere significava accontentarsi di un futuro in sordina.

    A quel punto, tuttavia, la partita era già cominciata.
    Qualunque cosa li stesse attendendo, li aveva aspettati a metà della traversata, cullandoli sardonicamente nella quiete apparente di una placida distesa d’acqua. Li aveva sballottati all’interno della scialuppa marcita, mischiandoli come un goccio di vino da degustare, prima di saggiarne la consistenza.
    Cosa stava succedendo? Urian non avrebbe saputo dirlo con chiarezza.
    Semplicemente, tutto aveva iniziato a ballare.

    Allargò le gambe, facendo resistenza con le ginocchia per rimanere in equilibrio, ma l’acqua continuava a salire e i bordi della barca sfioravano pericolosamente la superficie buia del lago. Nonostante l’impercettibile ansia che gli gorgogliava nello stomaco cavo, rimaneva piuttosto certo di avere tra le mani un compito facile da portare a termine. Il Diavolo si guardava intorno, trasognato e lucido ad un tempo, studiando con poca attenzione la luce che cadeva loro addosso nel biancore gelido di quella distesa vuota. Tutto era fermo e si muoveva assieme, ma le vertigini non arrivavano. Per un attimo, ebbe quasi la tentazione di lasciarsi trascinare come se un canto lontano, appena percettibile, lo stesso attirando a sé. Assomigliava ad una danza con un compagno scoordinato e vivace, che salta e gira e salta e gira ancora. Si preoccupava per te, ti prendeva in giro, solamente per lasciarti cullare nel senso d’abbandono e lasciarti scoprire se era davvero poi così terribile sbagliare. Impossibile, pensò. Io non sbaglio mai. Gli errori, in fondo, risultavano tali solamente se arrivavano a sfiorare il prossimo.

    Io crederei solo ad un Dio che sappia danzare”.
    Te lo senti sussurrare ed ora quasi hai paura: tu non hai mai saputo ballare.
    Chieditelo, dov’eri quanto gli altri imparavano? Dov’eri quando gli altri ridevano?
    Le mani ti tremano appena, serrate, le nocche sbiancate, intorno al legno marcio a cui ti aggrappi. Muovi le gambe, fai sempre più pressione, in un tic nervoso che sa di quella follia che tanto idealizzavi quando il cielo si riempiva di ricordi.

    Ora so dove pensi di essere.
    Ti chiedi se ti - vi - sentiranno cadere, ma la tua espressione solo vagamente turbata mi risponde che non accadrà. Cosa sei tu? Perché te ne stai aggrappato alle viscere altrui? Non mi piace affatto doverti inseguire pur di farti felice, non mi piace affatto ascoltarti e consentirti di sacrificare gli altri in cadute che spettano a te.

    Ti sembra tutto più leggero, ora, non è così? La barca smette per un attimo di ballare e già ti accorgi di rimpiangere il movimento, in tutta questa stasi improvvisa. Ti sei chiesto come mai? Guarda in basso. Guarda chi stai sacrificando, ancora una volta. Lascerai che digeriscano pure lui?

    Bravo. Hai terminato il tuo compito ed il pizzicore si è impadronito delle tue dita sporche. Di nuovo.
    Ormai ti conosco. Ora ti lascerai andare ed i rumori ti entreranno dentro lentamente, fino a diventare suoni comprensibili solamente per il tuo cervello annegato dal biancore. E’ sorridendo che ti accorgi di essere lo stesso pezzo di merda di sempre.

    “Lo ucciderei”, è questo che pensi?
    Lo guardi andare a fondo con una mania negli occhi che ormai conosco a memoria. Se non sapessi chi sei, ti scambierei per uno Yggdrasill malato e crudele. Ma tu sei peggio.
    Mi piacerebbe abbandonarmi al vento e agli steli d’erba ruvida ed umida che mi riempiono le mani, ma so che basterebbero dei passi a strapparmi via di qui ed ho paura di quanto riusciresti a ridere anche di me. Ci hai già provato. Ci provi in continuazione. Più tu ci provi, però, più io, lentamente, ti divoro.


    Urian!
    In quella frazione di secondo, quando il suo nome abbandonò le fauci contratte di Malcolm Bowie, qualsiasi tipo di anomalia o interferenza sonora parve spirare, risucchiata da quell’unica fonte gravitazionale. Urian abbassò lentamente gli occhi, lo sguardo vitreo, quasi assente, come se non comprendesse ciò che realmente si stava consumando davanti alle sue sclere. Si sollevò in piedi, per nulla affetto dall’instabilità dell’imbarcazione e, dall’alto della sua posizione, rimase ad osservare il corpo massiccio del Capo Auror combattere con tutte le proprie forze per rimanere a galla. Il suo viso era prigioniero di una maschera inespressiva davanti alla pietà di quella scena. Avrebbe voluto finisse in fretta, che quel momento arrivasse anche per lui.
    Eppure, in uno slancio improvviso, inaspettato, la presa del Sinister andò ad intensificarsi ancora una volta attorno al polso di Bowie, permettendogli di fare lo stesso con il proprio affinché mollasse il legno scivoloso dell’imbarcazione e si aggrappasse a lui, invece. Ricurvo in avanti, la fronte corrucciata per lo sforzo, tirava e tirava e tirava. Intrigò un piede in una fessura del legno per non scivolare a propria volta, continuando a tirare nella direzione opposta alla forza che reclamava l’anima ed il corpo dell’energumeno di Leith.
    Confesso: sono io la causa primaria di tutto quel che dalle tue mani sbadatamente scivola ed impolorerei cento volte il tuo perdono se solamente la biochimica applicata a tutti i miei automatismi innati mi fosse di facile comprensione. Non posso proprio, Mal, e tu lo sai.

    A malapena si rese conto di come la prua della barchetta prese a sbatacchiare insistentemente contro la riva, prima di affossarsi nel terreno limaccioso e dare ristoro alle membra fradice di chi ancora cercava di lottare. Il corpo di Urian cedette allo sforzo e, senza opporre la benché minima resistenza, si lasciò cadere oltre il bordo, sul terreno umido, il corpo per metà sferzato dalle onde fattesi improvvisamente placide. Chiuse gli occhi. Il petto si alzava e si abbassava con rapidità anomala, sotto le dita da scheletro aperte a ventaglio lì dove la cassa toracica tratteneva.
    - Che ti avevo detto? -
     
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    Mentre annaspava tra le onde imbizzarrite da chissà quale fattura inquietante, Malcolm Bowie non stava maledicendo Urian Sinister, no: malediceva se stesso e il suo innato talento nel mettersi nella merda. Sembrava che, più la sua vita cercasse di prendere una direzione giusta, priva di pericoli ma piena di amore, più le sue azioni lo spingevano senza molti preamboli tra le fauci della morte: dal momento in cui aveva iniziato a frequentare Paprika, ormai diversi anni prima, era cominciata anche la sua carriera da sbirro redento. Quando lei era rimasta incinta, a lui era stato proposto di fare un salto di carriera e diventare Capo Auror, con tutte le conseguenze del caso: uno dei suoi era morto durante la prima missione fuori dall'Inghilterra e lui ci aveva quasi lasciato la pellaccia. Ogni sua scelta lo portava successivamente a chiedersi cosa trovasse tanto intrigante della violenza e, alla luce del fatto che anche in quel preciso istante stesse sperimentando il rischio di finire male, il suo precario intelletto gli stava suggerendo una risposta: malgrado fosse innamorato della sua vita con la bibliotecaria, malgrado sua figlia fosse probabilmente la cosa più importante della sua intera e misera esistenza, c'era una parte di lui che non avrebbe mai rinunciato a quel genere di sensazione. Quella che ti stritola le viscere e te le fa sanguinare copiosamente, quella che gioca al tiro alla fune con te e ti costringe a traballare sull'orlo del baratro. Quella ti invita a superare il limite, quella che ti conosce in quanto masochista del cazzo. Quella che Urian Sinister sapeva bene come tirare fuori da quell'individuo grottesco che, un tempo, era stato a lui devoto.

    Percepiva una morsa invisibile appendersi alle sue caviglie con l'intenzione di trascinarlo giù, nelle profondità abissali. Davanti al suo brutto muso, la sagoma del Diavolo si stagliava imperiosa e crudele come quella di un tiranno indeciso se rivolgere il pollice verso l'alto o verso il basso. Le loro orbite si concatenarono per una manciata di secondi utili a indurre Bowie a credere di essere spacciato: come Sinister aveva puntato sul ronzino sbagliato, lui stesso aveva fatto male i calcoli. Aveva sperato di scorgere una luce nelle iridi inglobanti del negoziante. Non di bontà, non di magnanimità, ma di pura e semplice vita. Una scintilla di energia in grado di deludere le sue stesse aspettative, perché legata ad un lato positivo che strenuamente credeva di non possedere. Si maledisse per le elucubrazioni mentali che stava accogliendo all'interno della sua scatola cranica: che cazzo gli diceva il cervello? Stava per crepare perché quel maledetto demone ben vestito non avrebbe alzato un dito per aiutarlo e, invece che ripercorre il proprio percorso o aggrapparsi a ciò che di bello possedeva, preferiva concedersi l'Analisi del Suo Aguzzino?

    All'improvviso, come se Urian avesse potuto leggergli nel pensiero e quindi venire spronato non solo dall'immagine dello sbirro che affondava, ma anche dalle suppliche mentali che la sua mente elaborava nell'affanno, il proprietario di Magie Sinister gli venne incontro: un'azione che, malgrado le speranze vacue, ebbe il potere di sconvolgerlo al punto da farlo boccheggiare. La brutta mano sinistra si agganciò al braccio che l'altro gli stava tendendo, mentre ogni muscolo si tendeva nell'atto di riemergere dalle acque. Servì ognuna delle imprecazioni che lo scozzese riserbò al Diavolo e alle sue brillanti idee, per tirarlo fuori dal pericolo ma, una volta rimesso piede all'interno della bagnarola, il silenzio si impossessò della sua lingua, annodandola. Sbuffava dalle narici, scacciando faticosamente l'adrenalina dalle spalle larghe. Questo, finché l'imbarcazione non raggiunse la riva: allora, appigliato al legno umido come un insetto sulla carta moschicida, osservò Urian rotolare giù dal loro mezzo di trasporto di fortuna e, quando l'altro ebbe pure il coraggio di proferire quella sottile provocazione, il Grizzly incespicò nella struttura della scialuppa, affondando le suole degli anfibi nella sabbia bagnata che ospitava anche il suo aguzzino. Senza grazia, gli si avvicinò e, senza aprire bocca, strinse la presa intorno al colletto del suo cappotto, trascinandolo su di peso senza troppa fatica. Urian era una bacchetta facilmente spezzabile e, malgrado l'astuzia e la tenacia del Manipolatore, rimaneva fisicamente vulnerabile: era l'unico modo che Malcolm aveva di sovrastarlo e, in quanto sua unica possibilità, l'avrebbe sfruttata. Tirandolo su, lo mantenne in piedi grazie alla sua forza bruta, inchiodandolo con le orbite oceaniche in preda ad uno tsunami emotivo disturbante.

    -Testa di cazzo.- sibilò tra i denti vagamente ingialliti dal fumo, fradicio e ancora gocciolante, mentre esprimeva rancore e frustrazione tramite l'espressione increspata, ad una manciata di centimetri dalla faccia da schiaffi del negoziante. Senza riflettere, lo attirò a sé e lo intrappolò in un bacio imprevisto, che schioccò intollerante e aggressivo aldilà delle falesie, dopo qualche istante dilatato dal respiro che fluiva dall'appendice nasale dissestata -Grazie.- aggiunse rabbioso ma sinceramente grato all'altro per non averlo lasciato morire, esattamente come da lui richiesto. Mollò la presa con una lieve spinta, prima di cavare di impugnare nuovamente il catalizzatore e dirigere l'apice contro i propri indumenti: si asciugò, stropicciandosi i lineamenti ancora preda della tensione accumulata durante la traversata, poi, mosse qualche passo in direzione opposta alla riva. Dopo pochi metri, si girò verso Sinister e allargò le braccia muscolose con fare rassegnato: -Allora, ti muovi?- incalzò, ormai arreso al fatto che, probabilmente, quel giorno avrebbe rischiato le penne in più occasioni. Ormai il danno era fatto: doveva saldare il debito e si era persino tolto lo sfizio di dargli fastidio.

    -Ora che m'hai fatto fa' la parte di Morgan Freeman pe' fare la tua personale versione di "A Spasso con Daisy", mi dici che cazzo ci facciamo qua?- domandò, individuando una piccola abitazione diroccata con lo sguardo. La indicò, con la punta della bacchetta in larice, facendo cenno allo Squalo con la testa bruna: -Se è de marzapane c'entri da solo.- proferì, stancamente sarcastico. Era l'unico modo per non cedere alla tentazione - e al pensiero intrusivo da cui era essa era scaturita - di prendere Urian e ficcargli la testa sott'acqua, per puro sfogo animale e ben poco morale.

    -Specialis Revelio.- esordì, tracciando nell'aria una sorta di otto rovesciato che comprendesse l'intera zona che li accerchiava, nella speranza che non ci fosse niente di strano da segnalare. Dopo la grandiosa avventura in barca, non nutriva molte speranze.
     
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