Hollow

Privata, Norman Fox

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    La figura alta e slanciata del Ministro si aggirava spettrale tra le pareti del numero 12 di Grimmaud Place. Un’abitudine che da qualche mese a quella parte gli si era lentamente cucita addosso, quasi fosse attaccata da dei fili invisibili alla sua pelle, lasciandolo ancora più chiuso e reticente del solito.
    La monade entro la quale lui ed Amber avevano costruito la loro quotidianità era il suo unico talismano contro quelle giornate grigie e tetre. Giravano a vuoto, loro, l’Ordine della Fenice, da circa un anno, da quando Raynard Davies aveva eroicamente sacrificato la sua vita nella missione di recupero che aveva affidato ai suoi commilitoni, e girava a vuoto lui, Gabriel Silente, nel cercare di capire come mettere insieme i pezzi.
    Qualcosa doveva essergli sfuggito; una crudele beffa del destino, proprio a lui che aveva creduto di essere un passo avanti gli altri, forte di tutto ciò che aveva dovuto affrontare – il più delle volte caricandosi del peso di molte scomode verità che non era opportuno rivelare – quando in realtà ciò che era assolutamente evidente era stato il fallimento nell’anticipare le mosse dei propri avversari.
    Le occhiaie violacee erano diventate una compagnia costante da quando aveva preso a passare le notti lontano dalle mura della sua casa, sempre dopo aver salutato Amber con un bacio a fior di labbra, a passare in rassegna ogni informazione avessero raccolto in quel lasso di tempo, a lambiccarsi alla ricerca del famoso ago nel pagliaio che doveva aver trascurato e che, teoricamente, era proprio lì da qualche parte.
    Tentativi inutili si erano susseguiti, l’uno dopo l’altro, lasciandolo carico solo di frustrazione e senso di impotenza.
    Il volto dal profilo austero si era incupito sotto i colpi dei sacrifici che aveva dovuto accettare quale moneta di scambio per poter disporre del potere per combattere. Il sorriso che un tempo era genuino e radioso ora somigliava sempre di più – nelle rare volte in cui riusciva ancora a sorridere per davvero – ad un ghigno stirato, amaro e impotente.
    Perché era così che il Ministro si sentiva. Impotente.
    Continuava a girare in tondo a Grimmaud Place, in quelle fredde giornate tardo autunnali, accompagnato solo dal rumore del ticchettio della pioggia o del ritmo cadenzato dei suoi passi.
    Si era rifiutato categoricamente di portare l’orrore nel suo nido felice, lasciandolo al di fuori di tutto quel delirio; l’aveva promesso a se stesso e ad Amber quando Malcolm Bowie era andato a parlargli a casa, lasciandolo in uno stato forse anche peggiore rispetto al solito. Ed in quel momento, Gabriel aveva realizzato che non sentirsi al sicuro a casa propria era qualcosa che non avrebbe voluto affatto contemplare, in nessuno scenario possibile. C’erano state poche conseguenze, tutte decisamente rilevanti. La prima aveva portato più bene che male, dato che gli unici momenti in cui riusciva a sentirsi ancora al caldo, lontano da quella guerra – bisognava chiamare le cose con il loro nome, questo oramai l’aveva capito – con la sua famiglia .
    La seconda era che, da quel giorno in poi, la presenza di Gabriel Silente a Grimmaud Place era diventata un’abitudine alla quale non riusciva a sottrarsi. Iniziata come un tentativo per sentirsi utile e coinvolto, per non lasciarsi sopraffare dagli eventi e per illudersi di essere ancora al timone degli eventi, aveva finito per diventare un obbligo morale auto imposto che non aveva portato altro se non ulteriori interrogativi e ulteriori buchi neri che continuavano a starsene bellamente lì, in mezzo ad una trama che di lineare non aveva assolutamente nulla. E proprio come i buchi neri nel cosmo, anche quei profili di singolarità l’avevano attratto verso di loro, risucchiandolo.
    Ed era da solo.
    Si ricordava come avesse passato un paio di sere seduto sul divano, di fronte al camino acceso, con lo sguardo fisso nel vuoto, con la sua mente che continuava a girare su se stessa, in un circolo vizioso inarrestabile, inerme; non riusciva a impedire ai pensieri più negativi e autodistruttivi di venire a galla così come non era possibile trattenere un Occamy in uno spazio vuoto.
    Crescevano a dismisura, dandogli l’impressione che fluttuassero fuori dalla sua testa per riempire la stanza in cui si trovava, addensando l’aria e rendendola quasi irrespirabile.
    Si era circondato di persone, proprio come gli aveva suggerito di fare il signor Potter. Aveva ascoltato il parere di coloro che avevano combattuto qualcosa di simile – ammesso e non concesso che Lord Voldemort al pieno dei suoi poteri fosse paragonabile davvero ad un pericolo di questa entità, anche questo era arrivato a pensare – fidandosi delle persone accanto a lui, senza realizzare davvero cosa avesse chiesto loro. Ipotecate le vostre vite nella tutela di un’ideale, per combattere una guerra nella quale non abbiamo non solo delle garanzie di successo, ma partiamo fortemente svantaggiati perché non abbiamo assolutamente idea del pericolo che ci troviamo a fronteggiare. E fatevelo andare bene, senza ripensamenti, anche quando vi verrà chiesto di sacrificare qualcosa tra ciò che di più caro avete, perché lo sto facendo io e come tale dovreste farlo anche voi
    Il peso di quel pensiero gli aveva fatto venire il voltastomaco, tanto che si era dovuto alzare di colpo dal divano ed aprire la finestra, inspirando a pieni polmoni l’aria fredda londinese, sperando che lo facesse rinsavire. Il risultato fu ovviamente un ulteriore buco nell’acqua, l’ennesimo di una serie di fallimenti sia verso l’esterno che verso se stesso: non solo non riuscì a scacciare quel senso di colpa ingenerato da quella constatazione, ma più ci pensava più doveva sforzarsi di ignorare il pensiero successivo.
    Hai parlato di sacrificio. Hai parlato di scelte difficili. Hai parlato di mettersi al servizio, ma hai solo saputo chiuderti in te stesso perché non sopportavi di guardare gli altri negli occhi, con la consapevolezza di essere stato tu il primo a non farlo
    Ed era vero.
    Vero fino all’ultima maledettissima parola.
    Girare tra i corridoi di quella casa dalle radici antiche ed il volto nuovo, adibire il vecchio studio di Sirius Black, l’unica stanza nella quale Harry Potter aveva conservato il grande arazzo della famiglia del suo padrino, a ufficio privato, creando una mappa che connettesse insieme luoghi ed eventi, raccogliendo tutte le informazioni in modo meno caotico, era il suo tentativo di fare ammenda per il suo errore.
    E dopo l’ennesima riflessione che non aveva portato da nessuna parte e aver annotato sul suo taccuino altri particolari di rilevanza infima, che non riuscivano a soddisfare nessuno degli interrogativi, Gabriel aveva deciso che aveva bisogno di un drink.
    Scese le scale lentamente, sovrappensiero, andando in sala dove nella credenza color avorio sulla parete in fondo c’era una scorta di bottiglie di Whisky Incendiario di pessima qualità; un sorso di quello per sopire il suo io invadente e si sarebbe rimesso al lavoro.
    “Che cosa ci fai qui?” domandò, strabuzzando le iridi azzurre dietro le lenti degli occhiali. Pensò che fosse l’ennesimo scherzo della sua mente l’immaginare di avere visite. D’altronde, chi mai sarebbe potuto andare lì, oltre lui, a quell’ora, e con quale motivazione? Eppure la figura che si era appena voltata la conosceva bene. Tanto bene che immediatamente abbassò lo sguardo, tenendolo fermo sui piedi.
    Non sapeva se sperare che si trattasse di un’allucinazione, così da non doverlo affrontare, oppure trovarselo di fronte in carne ed ossa, loro due senza la mediazione di altre persone, così che potessero finalmente avere un faccia a faccia che da troppo tempo ormai stavano entrambi rimandando.
     
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    Qualcuno avrebbe potuto dire che Norman Fox era diventato egoista. Lui stesso, alle volte, lo pensava, ma quella parola per lui non aveva più una connotazione negativa.
    Cercava di godersi la vita, consapevole di non sapere quanta ancora gliene rimanesse da vivere. Non lo sapeva nessuno, eppure le persone normalmente non ci pensavano.
    Lui ci pensava ogni giorno. L’angoscia dei primi tempi aveva fatto spazio ad una consapevolezza più matura, quasi neutra. Quasi apatica.
    Dagli esiti confusi ed incerti dell’ultimo scontro magico a cui aveva preso parte, il Professore si era praticamente ritirato a vita privata. La sua ombra aleggiava su Hogwarts dall’alto della sua torre, ma non lo si vedeva quasi mai passeggiare per i corridoi della scuola. Vi era un’aria tetra, non gli piaceva più. Fosse dipeso da lui, avrebbe lasciato il compito a qualcun altro e se ne sarebbe tornato a fare l’Auror. Si trascinava giusto nei Sotterranei quando doveva tenere le sue lezioni, poi lasciava la scuola e si recava al Numero Quindici di High Street.
    Casa. La sua tregua dal mondo. Le braccia rassicuranti di suo marito. Le braci che scoppiettavano nel camino, il calderone che bolliva mesto. Non esisteva nient’altro. Non esisteva la scuola, non esisteva quel peso gravoso che anno dopo anno incurvava la sua schiena. Le vertebre sporgevano come coltelli dalla carne pallida. Non esistevano le battaglie, non esistevano gli amici, non esisteva la famiglia, non esistevano gli impegni presi, le promesse fatte col sangue. Nessuno avrebbe perso la vita, tra quelle quattro mura. Nessuno avrebbe dovuto buttare la propria per salvare un gruppo di sconosciuti. Non avrebbe dovuto passare la notte a spaccarsi la testa su un plico di pergamene che non capiva e a cui nessuno, né lui, né Ben, né Gabriel, riusciva a dare un verso.
    Forse il vecchio Naharis…
    L’idea di tornare ad Azkaban gli faceva accapponare la pelle. Accantonò quel pensiero, rigirandosi sul divano. Una ciabatta pelosa scivolò dal collo del suo piede e rovinò a terra. Non avrebbe potuto ignorare le proprie responsabilità per sempre, ma gli sarebbe tanto piaciuto farlo. Una parte di lui lo avrebbe fatto anche quel giorno, anche nonostante ciò che gli aveva detto Amber. Sbuffò, una ciocca di capelli ramati cadde sul suo naso. Riusciva a vedere con fastidiosa chiarezza il volto teso della donna. Indugiava sulla soglia del suo ufficio e teneva le mani giunte sul grembo gonfio. Giocava con le pellicine delle unghie, palesemente nervosa. Gabriel non se la passava bene, era quello ciò che la Martel gli aveva detto, senza troppi giri di parole. Era perennemente teso, non dormiva, si sentiva intrappolato in un loop senza via di uscita, le ricerche che lo conducevano sempre ad un punto cieco. Norman capiva sin troppo bene, era lo stesso che provava anche lui. Aveva promesso ad Amber che avrebbe parlato con Gabriel, ma non aveva davvero bisogno di pronunciare una promessa per sapere che, per quel proposito, non avrebbe indugiato. Gabriel era il suo migliore amico, avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Anche se questo significava rinunciare per qualche ora alla sua fuga dal mondo. Anche se questo significava non essere più un egoista per qualche ora.

    Quando era arrivato a Grimmauld Place, fuori aveva cominciato a piovere. Il vento gelido della capitale inglese gli aveva sferzato le guance che, adesso, pulsavano secche ed arrossate sopra l’ultimo strato della sciarpa ancora avvolta attorno al collo. La svolse con studiata calma, le orecchie tese a captare ogni rumore. Gabriel doveva essere da qualche parte di sopra, probabilmente nella stanza che aveva adibito a suo studio personale. Sentiva i suoi passi scomposti attraverso le assi di legno del soffitto. Al di là di loro due, il Quartier Generale era deserto. Non che si aspettasse di trovare davvero qualcuno. Si chiese se avrebbero mai davvero fatto progressi nelle ricerche. Si chiese se l’Ordine della Fenice fosse ancora un gruppo, una squadra. Si chiese se lo fosse mai stato.
    La figura di Gabriel emerse ciondolante dalle ombre dello stretto corridoio che portava al piano di sopra. Il Ministro della Magia si accorse della sua presenza qualche attimo dopo. Le sue iridi, celesti nelle sclere arrossate dalla stanchezza, lo scrutavano come se fosse un fantasma. Norman non riuscì a trattenere un mezzo sorriso. Si umettò le labbra ed attese.

    “Che cosa ci fai qui?”

    - Anche io sono felice di vederti, Gabriel. - Ribatté, il tono gioviale intiepidì appena la stanza. Lui e Gabriel non si vedevano da… beh, faticava a ricordare con precisione l’ultima volta. Si erano limitati alle missive, ai contatti via posta. Più sterili e distaccati, meno scomodi.
    Come ci siamo ridotti così? Sembriamo i fantasmi di noi stessi, pensò.
    Norman sospirò. Si versò un dito di whisky incendiario in un bicchiere dal fondo spesso, e staccò la spalla destra dal muro. Piegò il cappotto blu sullo schienale di una sedia.
    - Amber è venuta a cercarmi, questa mattina. E’ preoccupata per te, dice che sei… beh - Mormorò. Abbassò lo sguardo e poi, lentamente, lo fece risalire sulla figura dell’amico. Indugiava, insicuro su come procedere. Gabriel Silente appariva invecchiato, la pelle tesa e le rughe d’espressione infittite dalla tensione e dalla luce bassa ed aranciata del salotto. Si chiese se anche lui avesse lo stesso aspetto. - Dice che sei molto stanco, e io sono d’accordo con lei. Ti serve una mano, Gabriel. E io sono qui per aiutarti. Se le ricerche non hanno dato frutti, dobbiamo pensare a un altro modo. - Il whisky incendiario scivolò lungo la sua trachea, infiammandone le pareti. Sperava solo che il suo amico non facesse sfoggio del suo orgoglio, e che lo lasciasse entrare nella fortezza che si era costruito attorno.
     
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    Il ticchettio della pioggia sui vetri delle finestre era l’unico rumore che riverberasse tra le pareti di Grimmaud Place. Un brusio di sottofondo che riempiva il silenzio con uno scroscio di sensi di colpa, di parole non dette, di mani non tese, di confessioni evitate.
    Era così che si sentiva Gabriel, mentre come al solito si trovava a fronteggiare l’unico paio di occhi che fosse in grado di leggerlo con la stessa facilità con cui una persona guardava il proprio riflesso. Norman era il suo specchio, quello attraverso il quale il Ministro riusciva a guardarsi per ciò che davvero fosse, senza protezioni, senza scudi, senza i castelli di parole che si era ripetuto per tutto quel tempo così da alleggerirsi la coscienza dai macigni che la appesantivano, impedendogli quasi di respirare e tenendolo fermo a ciò che era.
    Le catene dei sensi di colpa lo avevano intrappolato da tempo: non era forse il senso di colpa stesso l’essenza della vita di Gabriel, il suo vero nome , sin da quando avesse avuto memoria? Non era stato forse il senso di colpa la causa recondita di ogni sua decisione presa? Non era forse la colpa stessa l’essenza della sua anima?
    Custodiva il retaggio di un’eredità infausta, una famiglia che aveva perturbato le pagine di almeno l’ultimo secolo di storia magica, manipolando gli altri in nome di un Bene Superiore, incurante di ciò che sacrificasse nel grande disegno delle cose. Nelle sue vene scorreva il sangue di Albus Silente, colui che più di tutti incarnava la definizione di mago senza scrupoli alla perfezione; era il sangue di un assassino, di un mago che amava giocare partite a scacchi con il proprio nemico, sacrificando come trascurabili pedoni le vite di coloro che avevano avuto la malaugurata idea di riporre la propria fiducia nelle sue mani. L’aveva fatto con Newt Scamander, l’aveva fatto con la sorella Ariana, l’aveva fatto con Lily e James Potter, con Sirius Black, con Remus Lupin, con i coniugi Paciock, con i Weasley, l’aveva fatto persino con Harry Potter, in una roulette russa che, per un mero cavillo che obiettivamente neanche il saggio e sapiente Albus Silente avrebbe potuto prevedere, aveva finito per salvare in extremis capra e cavolo.
    Cercare di fare ammenda per tutto questo non era altro che la manifestazione più deviata e malata del suo senso di colpa, ma non riusciva proprio a inquadrare le cose in un’ottica diversa, e così si era tuffato completamente in quella missione, finendo per diventare il ritratto della dinastia Silente. Lui, che aveva tentato a tutti i costi di sottrarsene.
    Il pensiero dell’uomo che era diventato lo disgustava. Ed era forse per questo che aveva evitato Norman – perché bisognava chiamare le cose con il proprio nome – per tutto quel tempo, perché il solo pensiero di trovarsi di fronte al suo migliore amico implicava doversi guardare – nuovamente – nello specchio delle verità, e non in quello delle brame, e la verità diceva che, oltre il suo senso di colpa, Gabriel Silente si sentiva profondamente impotente.
    Già detestava non avere il controllo delle piccole cose della sua vita, tanto che le volte in cui l’aveva perso si era sentito spaesato, senza una direzione, preda di un’ansia profonda che non aveva idea di come gestire e, soprattutto, in quei momenti ciò che gli era capitato l’aveva ancora di più scottato. Che gli imprevisti potessero essere delle occasioni, lui proprio non riusciva a contemplarla come ipotesi, anzi, al contrario, quando si era trovato a fronteggiare delle circostanze non previste, era sempre uscito fuori scottato, ferito, lacero, con un’unica convinzione maturata, ossia che chi vedeva delle possibilità nell’imponderabile aveva letto decisamente troppi libri di narrativa rosa.
    In fin dei conti, a parte mandare a morte un suo vecchio amico e compagno di scuola, che cosa aveva fatto di rilevante o di utile alla causa?
    Niente.

    “I tuoi pensieri fanno rumore” esordì, con la sua consueta voce baritonale che sembrava ancora più cupa ed arrochita dalle ore passate in completo silenzio.
    Anche Norman sembrava diverso. Un sorriso stanco che somigliava sempre più ad una smorfia gli increspò le labbra. “Mal comune mezzo gaudio no?” buttò lì, lapidario, stringendosi nelle spalle, lievemente a disagio.
    Non era assolutamente pronto per ciò che stava per succedere e avvertiva, oltre l’ineluttabilità di quel confronto, anche una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco che gli stava suggerendo inequivocabilmente di liquidare là su due piedi il suo migliore amico, girare i tacchi e tornarsene al piano di sopra a riesaminare daccapo tutta la mappa concettuale che aveva elaborato, con l’unico risultato di ricavarne frustrazione e desolazione.
    Norman nel frattempo aveva piegato impeccabilmente il cappotto blu e l’aveva adagiato sullo schienale della sedia, in una muta quanto decisa affermazione che Gabriel aveva capito fin troppo bene; qualunque decisione lui avesse dimostrato di voler prendere, Norman non avrebbe lasciato andare la questione così facilmente, anzi aveva proprio intenzione di non mollarlo di un millimetro, non finché lui non si fosse lasciato aiutare.
    Non aveva neanche bisogno di sentire quelle parole, tanto era già chiaro da prima quale che fosse l’intento. Eppure, qualcosa continuava a frenarlo. Ebbe la sgradevole sensazione di non essere più neanche se stesso, di essersi smarrito definitivamente; la parte di lui che per tutto quel tempo l’aveva accompagnato, la sua parte migliore, almeno a suo parere, sembrava essersi smarrita dietro la facciata di un uomo consumato dai propri demoni.

    Amber è venuta a cercarmi, questa mattina. E’ preoccupata per te, dice che sei… beh Dice che sei molto stanco, e io sono d’accordo con lei. Ti serve una mano, Gabriel. E io sono qui per aiutarti. Se le ricerche non hanno dato frutti, dobbiamo pensare a un altro modo



    “Sto bene” mormorò e addirittura la sua voce non gli suonava più così tanto familiare. “Amber si preoccupa sempre moltissimo. Anche troppo.”
    In un altro momento si sarebbe quantomeno fermato a riflettere o avrebbe messo su una scenata da primadonna quale era – o meglio, quale era stato – su quanto fosse inadeguato come compagno oppure, nel verso contrario, di quanto fosse difficile stare nei suoi panni o dover affrontare la sua vita.
    Eppure, non c’era più spazio neanche per quello oramai.
    “Ci si aspetta molto di più da me e finalmente l’ho capito” continuò, apatico, sforzandosi a tutti i costi di non indugiare troppo nelle iridi di Norman, proprio perché non poteva assolutamente permetterselo.
    Una punta di amarezza gli inondò la bocca quando lo sentì dire che voleva aiutarlo anche lui.
    “Ti ringrazio per l’aiuto, ma non credo sia una buona idea” disse, con un distacco che non gli apparteneva. “Non c'è un altro modo e ho già coinvolto troppi di voi con risultati quantomeno discutibili: ho messo in pericolo Hogwarts, Raynard è morto, Bowie ha rischiato l’osso del collo non appena diventato padre. Non voglio coinvolgerti in tutto questo più di quanto abbia fatto: Benjamin non me lo perdonerebbe mai, e nemmeno io a dirla tutta” concluse, sbrigativo. “Grazie, davvero, ma devi tornare a casa. Non fare il mio stesso errore, tu che sei ancora in tempo.”

    Edited by Gabriel S. Silente - 5/12/2023, 00:17
     
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    “I tuoi pensieri fanno rumore”

    E il dardo era andato a segno, lo aveva colpito invisibile nel mezzo dello sterno. Era così: i suoi pensieri erano rumorosi e rimbombavano nelle pareti della sua mente in modo così limpido che, alle volte, lui stesso era sicuro che chiunque in casa potesse sentire la natura delle sue elucubrazioni. E non sapeva se fosse a causa della legilimanzia, ma non aveva dubbi che a Gabriel non sarebbe sfuggito niente. Avrebbe potuto rafforzare le proprie difese mentali. Se si fosse trattato di chiunque altro, lo avrebbe fatto. Invece, Norman si rilassò, pensando che mostrarsi limpidamente sarebbe stata la mossa più saggia, visto lo stato in cui il suo amico si trovava.
    La penombra in cui il quartier generale era immerso disegnava solchi profondi sui volti di entrambi. L’ultimo anno aveva accelerato i segni dell’età per tutti e due e, sebbene lui avrebbe potuto cancellarne ogni traccia utilizzando la metamorfomagia, non lo faceva. Non trovava giusta l’idea che solo i volti delle persone che amava sarebbero stati lo specchio di quello che era successo. Era un fardello che avrebbero portato tutti assieme. Lui aveva sempre avuto paura di invecchiare, ma mai come in quei mesi si era sentito tanto fortunato di poterlo fare. L’eterna giovinezza era una truffa: chi la otteneva, lo faceva a discapito di tutto il resto.

    “Mal comune mezzo gaudio no?”

    - Come sempre. - Ribatté. Da quando Gabriel era tornato ed aveva preso il posto del Ministro vacante (per non dire assassinato) ormai tre anni prima, avevano sempre affrontato ogni difficoltà assieme. Perché questa volta sarebbe dovuto essere diverso?
    E Norman sapeva perfettamente ciò che l’altro gli avrebbe detto di lì a poco. Di nuovo, non sapeva se la sua intuizione fosse aiutata dalla legilimanzia o se si trattasse semplicemente di conoscere a fondo una persona, ma quando sentì le prime parole uscire dalla bocca dell’altro, la Volpe sorrise tra sé e sé, nella penombra.

    “Sto bene”

    Gabriel Silente e i suoi “sto bene”. Ce n’era uno per ogni occasione, bisognava solo essere abbastanza accorti da intendere quale sottotono utilizzava per ciascuno, e da lì capire cosa volesse dire per davvero.
    Gabriel non cambiava mai, ma Norman ormai pensava che nessuno di loro sarebbe mai davvero cambiato. E trovava che fosse una bella cosa: in un mondo che mutava così rapidamente e che faceva così paura, era confortante trovare delle anime affini.
    Gabriel si caricava il peso del mondo sulle proprie spalle, minimizzava i propri sentimenti, e si colpevolizzava di cose che esulavano dal suo controllo. Norman non era sicuro che l’amico sarebbe mai stato più oggettivo al riguardo, ma sapeva che lui sarebbe sempre stato lì per provare a convincerlo che non tutto fosse sua diretta responsabilità. Aries Black, per esempio, era una vittima di una sua propria falla. Era morto davanti a lui, tra le mura della scuola che avrebbe dovuto proteggerlo e formarlo come giovane adulto. Aries Black era stato un suo fallimento, e lui non si sarebbe mai perdonato la sua incapacità di proteggerlo.

    “Amber si preoccupa sempre moltissimo. Anche troppo.”

    - Se accetti il consiglio di un amico, ti direi di non svalutare così l’opinione di chi ti ama. Sono loro, quelli che riescono a vederci per ciò che siamo davvero, e… per come stiamo davvero. - Disse. Anche se lo avesse voluto, Gabriel non sarebbe riuscito a nascondere le sue preoccupazioni ad Amber. Lei, che condivideva con lui la sua vita, lo aveva davanti agli occhi tutti i giorni, quel suo logoramento dell’anima.

    “Ci si aspetta molto di più da me e finalmente l’ho capito. Ti ringrazio per l’aiuto, ma non credo sia una buona idea. Non c'è un altro modo e ho già coinvolto troppi di voi con risultati quantomeno discutibili: ho messo in pericolo Hogwarts, Raynard è morto, Bowie ha rischiato l’osso del collo non appena diventato padre. Non voglio coinvolgerti in tutto questo più di quanto abbia fatto: Benjamin non me lo perdonerebbe mai, e nemmeno io a dirla tutta. Grazie, davvero, ma devi tornare a casa. Non fare il mio stesso errore, tu che sei ancora in tempo.”

    - Oh, col cazzo. - Sbottò, le iridi fisse negli occhi del Ministro. - Non mi rifilerai assolutamente questa tiritera. In primo luogo, non vado proprio da nessuna parte, e poi, non so davvero come dirtelo ma… siamo tutti adulti ed eravamo, e siamo, tutti consapevoli dei rischi. - Disse. La sua voce era ferma, per quanto un sottile e vibrante filo di impazienza stesse cominciando a scaldargli le budella. Non aveva mai sopportato le persone che si arrendevano, e vedere la resa negli occhi del suo amico lo faceva incazzare. Lo capiva, certo, ma non lo accettava. - Quindi, ora cosa pensi di fare? Di restare qui da solo ad arrovellarti e a piangerti addosso, mentre le uniche persone che potrebbero aiutarti e fare qualcosa di concreto dovrebbero, secondo te, ignorare il fatto che il mondo in cui viviamo stia cadendo a pezzi? - Domandò.
    Nonostante Gabriel non fosse mai stato un violento, Norman non era sicuro di poter escludere l’eventualità di ricevere un cazzotto dritto sul naso, in quel momento.
    - Quando mi sono unito all’Ordine, l’ho fatto per un ideale: ho promesso a Benjamin che avremmo vissuto la vita che sogniamo, e ho tutta l’intenzione di onorare la parola data. Per vivere quella vita, però, dobbiamo vincere questa battaglia. - Disse. Era probabilmente una battaglia persa o, quantomeno, uno stretto cunicolo marcio in cui era pressoché impossibile far filtrare della luce, ma finché anche solo uno di loro fosse stato vivo, Norman non avrebbe accettato patteggiamenti. Si era già privato delle cose che amava per vent’anni della sua vita, e non era più disposto ad accontentarsi degli scarti.

    - Quindi, Gabriel, pensa quello che ti pare, ma io non me ne vado proprio da nessuna parte. -
     
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    Si era voltato, dando le spalle a Norman, perché ogni parola che usciva dalla bocca del suo migliore amico sembrava trafiggerlo come una stilettata sotto la pelle; non abbastanza a fondo da causargli un vero dolore, e quindi una reazione uguale e contraria, ma sufficientemente perché sentisse una gelida sensazione sotto la pelle, fredda e acuminata, che gli procurava invece un dolore più sordo. In più, il ritmo della conversazione era lento il giusto affinché il dolore di ogni ferita non si sovrapponesse a quella successiva, così da innescare un circolo vizioso pressocché infinito, che rinnovandosi, lo pungolava in maniera costante e continua.
    Detestava non guardarlo in faccia, ma anche la sua abilità di occlumante sembrava venir meno di fronte al metamorfomago; forse perché non aveva mai sentito il bisogno di proteggersi da lui, forse perché era in uno stato mentale che lo faceva camminare come un funambolo, pericolosamente, in mezzo al baratro dell’oblio e della perdita di se stesso.


    Se accetti il consiglio di un amico, ti direi di non svalutare così l’opinione di chi ti ama. Sono loro, quelli che riescono a vederci per ciò che siamo davvero, e… per come stiamo davvero


    Continuò a fissare il camino mentre il tentativo di Norman andava ad infrangersi contro il muro che stava tentando di innalzare. Si voltò appena per rispondergli, ma le parole gli rimasero incastrate nella gola. Avrebbe voluto dirgli “Vedere per come siamo davvero? Cosa c’è da vedere più di quello che ho mostrato finora? L’incapacità di portare a termine un compito? Il tentativo patetico di un uomo troppo orgoglioso ed arrogante che ha sfidato poteri più grandi di lui che non poteva fronteggiare? L’aver coinvolto altra gente in una missione che aveva le stesse probabilità di successo che aveva una puffola pigmea di sconfiggere un Dorsorugoso Norvegese incazzato?”
    Non ci riuscì ad esternarlo. Quantomeno, stava imparando la mitezza, che non gli sarebbe comunque servita a rendere migliori le cose e a portarlo avanti in ciò che doveva fare, ma avrebbe protetto gli altri, e quello poteva comunque dirsi un risultato notevole per un Grifondoro impulsivo e istintivo quale era.
    A poco serviva la voce dentro di lui che continuava a ripetergli da tempo una massima che si sforzava di mettere da parte
    Alla fine di tutto, ricordiamo solo il silenzio degli amici, non le parole dei nostri nemici.
    Quel pensiero continuava a tormentarlo: avrebbe allontanato tutti quanti e sarebbe rimasto solo ed il ricordo che avrebbe lasciato a coloro che gli volevano bene, coloro che l’avevano amato e che l’amavano sarebbe stato solo il silenzio che aveva scelto come unica via di fuga.
    L’avrebbero guardato, vedendo solo l’immagine di un uomo fermo e risoluto, senza sapere quanto fosse appesantito dalle zavorre che continuava a celare con zelo, trascinandole fino allo stremo delle sue forze, ma tutto sommato gli andava bene così.
    Avrebbe potuto decidere di mandare tutto all’aria, scegliendo la propria libertà, ma il senso di responsabilità, la vera eredità di sua madre Amanda, era uno dei pilastri su cui si reggeva tutto l’edificio della sua personalità, e Gabriel non riusciva ad immaginare un mondo nel quale avesse potuto mettere se stesso al primo posto, così da decidere sulla scorta di ciò che lui stesso avesse desiderato, a scapito di ciò che gli altri si aspettavano da lui.
    Quello era il suo destino. E avrebbe fatto meglio ad accettarlo in fretta così da evitare sprechi di energie per sottrarvisi.
    “Te l’ho già detto Norman.” disse, con una voce innaturalmente calma. “Torna a casa”
    Ciò che non si sarebbe aspettato fu il tono sferzante con cui il Preside di Hogwarts gli si rivolse.



    Oh, col cazzo. Non mi rifilerai assolutamente questa tiritera. In primo luogo, non vado proprio da nessuna parte, e poi, non so davvero come dirtelo ma… siamo tutti adulti ed eravamo, e siamo, tutti consapevoli dei rischi. Quindi, ora cosa pensi di fare? Di restare qui da solo ad arrovellarti e a piangerti addosso, mentre le uniche persone che potrebbero aiutarti e fare qualcosa di concreto dovrebbero, secondo te, ignorare il fatto che il mondo in cui viviamo stia cadendo a pezzi? Quando mi sono unito all’Ordine, l’ho fatto per un ideale: ho promesso a Benjamin che avremmo vissuto la vita che sogniamo, e ho tutta l’intenzione di onorare la parola data. Per vivere quella vita, però, dobbiamo vincere questa battaglia


    Si voltò istintivamente mentre sentiva una parte profonda di sé agitarsi nervosamente nelle sue viscere. Le tempie presero a pulsargli ad ognuna delle sferzate che Norman, con precisione chirurgica, gli stava lanciando addosso.
    Perché nessuno voleva capirlo? Perché tutti avevano solo cose da rimproverargli? Perché qualunque cosa decidesse di fare in qualche modo scontentava gli animi o le aspettative? Perché non c’era soluzione sulla quale gli altri non si sentissero in dovere di mettere bocca, anche quando era fatta solo e soltanto per proteggerli?
    Non ci vide più e sentì, sgomento, il proprio corpo muoversi di propria volontà, animato da un istinto quasi animalesco che non sapeva gli appartenesse. In circostanze analoghe la mano di solito correva alla bacchetta, con gelida determinazione, e con quattro movimenti ben assestati colpiva preciso il proprio obiettivo. In quel momento, mentre si slanciava verso di Norman, non si rese conto di ciò che stava facendo, finché non si ritrovò con gli occhi fissi in quelli del suo amico, mentre con le mani lo teneva sollevato da terra, stringendo forte il bavero dei vestiti.
    Non sapeva neanche di avere così tanta forza, tale da sollevare a mani nude una persona, per qualche centimetro da terra.
    “Perché!” tuonò, con la sua voce baritonale. “Perché nessuno di voi mi vuole ascoltare!”
    Era sconvolto. Sconvolto per quella reazione, sconvolto perché il muro – o meglio la diga – che aveva innalzato per arginare il flusso delle sue negatività era crollato sotto il peso delle parole di Norman e ora che si era scatenato in tutta la sua furia distruttiva, Gabriel aveva paura anche di se stesso. Eppure, per quanto cercasse di riprendere possesso delle sue facoltà, non riusciva a trattenere neanche il minimo briciolo di emozione, così da calmarsi. I tentativi di appiattire la mente sembravano completamente inefficaci e se anche l’occlumanzia non funzionava, il Ministro proprio non sapeva come fermarsi.
    “L’unica cosa che tutti sanno fare bene è mettersi sullo scranno del cazzo del Wizengamot, come tanti Inquisitori, e puntarmi il dito su ogni cosa che faccio, anche quando cerco di salvarvi la fottutissima pelle, proteggendovi come meglio posso e cercando di imparare dai miei errori. Non basta neanche questo? Che cosa volete da me? Cosa vi aspettate che faccia? Perché se devo togliermi dai piedi sappiate che lo farei volentieri, se questo risolvesse definitivamente il problema. Ci ho pensato, oh eccome se ci ho pensato più volte. Dimettermi, sparire, arriverei persino ad andare ad affrontare il problema alla radice e accetterei di morire più che volentieri, se questo servisse a farla finita con questa storia. Tanto, che cosa ho più da perdere rispetto a quanto ho già perso?”
    Il fiume in piena era oramai definitivamente straripato e non c’era modo di fermarlo. Erano giorni, mesi, se non addirittura anni che ogni goccia di risentimento e frustrazione si era accumulata in quella che all’inizio non era altro che una semplice e stupida pozzanghera.
    Era da quando non era riuscito a salvare sua madre che accumulava. Era da quando aveva creduto di aver perso sé stesso perché Vivianne aveva scelto di sposare Albus. Eppure quella era solo una pioggerellina di inizio autunno, di quelle con le gocce talmente piccole da sembrare solo vento umido in confronto ai temporali che l’avevano riempito.
    Era da quando aveva scoperto la verità sulle sue origini. Era da quando aveva sentito su di sé la responsabilità per il dolore che la sua famiglia aveva causato a Norman, colui che aveva ritrovato e che era diventato, senza ombra di dubbio, il suo migliore amico. Era da quando era iniziato il senso di colpa per la vita di merda che aveva regalato ad Amber, colpevole solo di essersi innamorata di lui. Era da quando aveva iniziato a contare la scia di cadaveri che costellavano il cammino che aveva iniziato a percorrere, iniziato con un banale fascicolo di un caso freddo. Era da quando uno studente di Hogwarts era morto e lui non era stato lì a proteggerlo. Era da quando aveva pianto vedendo le torri del castello sbriciolate sotto gli assalti di forze quasi ultraterrente, e sicuramente ultratemporali, e lui non era stato presente in prima linea a combatterlo.
    Era da quando aveva mandato alcuni membri dell’Ordine della Fenice, il fallimento più grande della sua vita, ed erano tornati con uno in meno, un volto che ora sarebbe rimasto solo incastonato tra le fotografie e i ricordi di quel poco che avevano condiviso a scuola.
    Era da quando aveva capito di essere una specie di sopravvissuto, una calamita di pericoli e sventure che metteva a repentaglio le vite di coloro che gli stavano vicino.
    Le lacrime avevano preso a scendere dai suoi occhi con la stessa furia che imperversava dentro di lui. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a staccare le proprie iridi da quelle del Metamorfomago. Voleva che capisse, voleva che vedesse quanto fosse vuoto e dilaniato dall’interno.
    Voleva che l’aiutasse, salvandolo da se stesso
    Sentì la pressione delle sue mani allentarsi e avvertì il suo corpo smettere di sorreggere Norman per i vestiti. Lo rimise giù, mentre con il dorso della mano, rabbiosamente, si strofinò gli occhi, sperando che quella sofferenza finisse presto.
    “Sto solo provando a cercare delle risposte in tutto il dolore che ho causato e in tutto quello che sento dentro.” disse, la voce rotta dai singhiozzi. “Ma non ci riesco. Cazzo, non ci riesco. E cosa succede se continuo a non riuscirci? Sai cosa significa?” proseguì, amaro. “Significa che forse l’unica risposta è quella autoevidente: ho causato dolore perché il problema sono io, io che continuo a girare in un labirinto infinito di e se avessi fatto così? ma ad ogni svolta che prendo ho come solo risultato quello di perdere un pezzo di me stesso. Ed eccoci qua a noi. Questo è quello che sono diventato, un uomo che prende per il bavero il suo migliore amico che tenta di aiutarlo.”
    C’era frustrazione. C’era amarezza. C’era quasi disperazione in quelle parole. Eppure, in un angolo remoto, c’era anche speranza, speranza che Norman arrivasse da lui e decidesse di tendergli la mano, salvandolo dal buco nero in cui si era andato a cacciare.
    “Amber se ne è andata” disse, monocorde. “Ha deciso di tornare in Canada per le feste.” continuò, sempre con un filo di voce. “Ha detto che non sa quanto sia disposta a starmi vicino se continuo ad escluderla volontariamente dalla mia vita, aveva bisogno di stare distanti per capire.”
    Non poteva certo biasimarla, anzi da una parte era quasi sollevato che lei avesse deciso di prendere delle distanze, così che non sarebbe stata in pericolo. Ma faceva male, ogni giorno. Forse era anche per quello che aveva preso a non voler passare quasi più tempo a casa sua. Amber era l’unico ricordo positivo che lo legasse a quel posto e senza di lei gli sembrava solo di essere intrappolato tra i muri del proprio passato e della propria eredità di sangue.
    “Che cosa dovrei fare?”
     
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